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Le carte piene di sogni

Questo libro aveva, fino a qualche mese fa, un curioso “primato”: il più “iniziato e subito abbandonato”. Avrò provato a cominciarlo almeno tre volte in passato, e sempre mi sono bloccata più o meno a pagina 3. Non che ci fosse qualcosa di terribilmente ripugnante a pagina 3, solo che, vai a capire, mi si chiudevano gli occhi. Ancora una volta è giunto “in soccorso” il gioco della Parola del mese di Goodreads Italia, che a giugno proponeva la parola “sogno”; in realtà è un non-gioco, non si vince nulla, ma per me e per altri è un modo come un altro per scegliere il prossimo libro da leggere e magari, appunto, smaltire cumuli e cumuli di “arretrati”.

Argomento del saggio sono le varie “strategie” (adattamenti, riduzioni, rimaneggiamenti, letture pubbliche, performance dei cantastorie, ecc.) con cui, in epoca moderna, i ceti più umili o le categorie considerate più “a rischio” di rimanere influenzate o “corrotte”, e di conseguenza quelle cui più si cercava di tenere lontane dalla lettura (ad esempio donne e bambini), riuscivano comunque a venire a contatto con i libri, e non solo prodotti dichiaratamente “popolari”, ma anche capolavori che oggi siamo abituati a ritenere letture di nicchia e che invece un tempo godevano di una amplissima fortuna (Ariosto e Tasso su tutti). Interessante, se non forse un po’ ripetitivo, e concentrato quasi esclusivamente sul genere del poema cavalleresco (il generico sottotitolo “Testi e lettori in età moderna” faceva pensare a uno spettro di indagine più vasto): a me invece non sarebbe dispiaciuto un maggiore approfondimento del primo capitolo (“Censure e letture”), sui testi di carattere sacro semplificati e “approvati” per il volgo, così come dei mezzi di insegnamento, trasmissione e diffusione di questo genere di libri, libretti e stampe. Ma sarà materia di un altro saggio.

Marina Roggero, Le carte piene di sogni, voto = 3/5

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Viaggi in corso

Non sono una grande viaggiatrice, ma mi piace leggere di viaggi altrui (ho anche uno scaffale su Goodreads appositamente dedicato all’argomento), e specialmente dei viaggi di una volta: di quando talvolta si partiva senza avere idea di cosa si sarebbe trovato, dei primi contatti con altre terre, culture, persone, di esplorazioni e spedizioni, anche di conquista, delle difficoltà spesso enormi e delle distanze, fisiche, mentali, per noi ormai inimmaginabili, e delle peripezie e tragedie e incidenti e scoperte, per il puro gusto dell’esotico o dell’avventura.

Questo gradevole e veloce libretto, scritto da uno specialista in materia come Attilio Brilli, non si occupa però di questi temi “epici”, ma tratta degli aspetti più “terra terra” del viaggio (in particolare il classico viaggio in Italia, ma non solo) tra XVII e XIX secolo; l’ho preso proprio perché offriva questo taglio più insolito e da me finora trascurato.
Attraverso brani di diari e lettere di viaggiatori celebri e meno celebri, da Goethe in giù, manuali e guide, scopriamo suggerimenti su quali precauzioni prendere prima di partire, quali guide procurarsi, come vestirsi, cosa portarsi dietro (a partire dall’imprescindibile nécessaire de voyage, vero e proprio status-symbol ante litteram), quale mezzo scegliere, dove dormire, gli imprevisti possibili e come fronteggiarli. Interessanti brani di storia materiale illustrano la struttura e i tipi di carrozza, o il kit del viaggiatore alla moda, con lo scrittoio portatile e il Claude glass. Non troveremo qui gli aspetti più “romantici” delle memorie di viaggio, spesso pensate per la pubblicazione e raramente attente a questi dettagli più prosaici e materiali, e tuttavia emerge lo stesso il fascino di un’esperienza che in passato, a differenza di oggi, era spesso unica e irripetibile nella vita delle persone.

Attilio Brilli, Viaggi in corso, voto = 3,5/5

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La Conquista del Messico

Questo è un argomento su cui non mi stancherò mai di leggere: riunisce insieme così tanti aspetti affascinanti (viaggi, avventura, ignoto, incontro con l’altro, gusto del romanzesco, passione, caso, tragedia) da essere irresistibile. La mia collezione di libri è ancora piccola, ma sta crescendo.

Una delle aggiunte più “preziose” è questo La Conquista del Messico dello storico americano William H. Prescott (1796-1859), che forse compariva nella bibliografia dei saggi di Levy o di Miralles sullo stesso argomento. Se dovessi recensirlo in poche parole, direi che è tutto ciò che Cortés di Miralles non era: tanto quel libro era sì dottissimo ma arido, pedantesco e faticosissimo da leggere, quanto questo è una goduria per il lettore. Prima di acquistare o mettere in lista un libro, controllo sempre qualche recensione su Goodreads… In questo caso, per un saggio di quasi 1000 pagine scritto nel 1843, sono rimasta stupita di fronte al livello di entusiasmo dei lettori (per citare un po’ qua e là: “Insanely good. The most impossible-to-put-down history book I’ve ever held in my hot little hands. And it’s over 100 years old.”, “This is the absolute best! What an exciting story.”, “This book is astounding!”, “Shakespearean. Biblical.”, “This was written in *sit yourself down* eighteenfortythree and it reads brilliantly.”). Diciamo quindi che i pareri erano molto incoraggianti… e, ho potuto verificare, assolutamente veritieri. Davvero, se volete far appassionare qualcuno alla lettura di saggi storici, dategli questo libro: 881 pagine che scorrono in un lampo (magari ditegli di saltare l’introduzione con la biografia dell’autore: è interessante pure quella, eh, ma meglio non esagerare, come prima volta!).

Chiaramente, non è in un saggio del 1843 che si cercano le ultime novità in fatto di interpretazione storiografica dell’avvenimento. Non aspettiamoci da Prescott una lettura “terzomondista” o “antimperialista” della conquista del Messico. Il suo presupposto di partenza è che la storia sia un continuo progresso, e che le civiltà più evolute soppiantino “naturalmente” quelle rimaste a un grado inferiore di civiltà. Oltre tutto la civiltà azteca è stata, secondo lui, “giustamente” sconfitta e cancellata dalla storia per l’abominio imperdonabile dei sacrifici umani… Tuttavia egli non è mai del tutto indifferente di fronte alle conseguenze devastanti della Conquista di lì a venire per la popolazione americana, come non è privo di ammirazione verso le vette della civiltà azteca e il coraggio e l’irriducibilità degli ultimi resistenti (ad esempio l’ultimo imperatore Cuauhtémoc) e non nasconde, a parte l’evidente fascino per il protagonista della sua epopea, Cortés, gli eccessi più violenti dei conquistadores (d’altra parte neanche la cattolica Spagna era per lui, anglosassone e protestante, la vetta della civiltà, sebbene sia il paese che, da storico, più l’interessò), mentre stigmatizza con ironia gli eccessi trionfalistici e nazionalistici, o ultra-apologetici e agiografici, degli storici, soprattutto spagnoli, che l’hanno preceduto (accanto alle pagine piene d’azione e, come si dice, “appassionanti come un romanzo”, non mancano approfondimenti sulle fonti consultate, criticamente vagliate, e schede biografiche degli autori).

Insomma, bellissimo e, inutile dirlo, subito messi in lista anche History of the Conquest of Peru, dello stesso autore, e, perché no?, anche il suo History of the Reign of Philip the Second, King of Spain (si trovano tutti gratuitamente in lingua originale, in ebook).

William H. Prescott, La Conquista del Messico (trad. Piero Jahier e Maria Vittoria Malvano), voto = 4/5

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Guns, Germs, and Steel

Questo famoso saggio di Jared Diamond, uscito in Italia col titolo Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi 13.000 anni (e il sottotitolo italiano, a differenza del titolo, non è fedele all’originale: l’originale inglese è “The Fates of Human Societies”, i destini delle società umane, che, come si vedrà, è molto più pertinente), è il secondo libro, dopo Breve storia di (quasi) tutto, selezionato per il gruppo di lettura di saggistica di Goodreads Italia.

La domanda alla base della ricerca di Diamond è di quelle che neanche ci poniamo più, tanto ormai lo status quo ci appare “inevitabile” e “scontato”, e invece non è per niente peregrina: ma perché alcune società umane sono arrivate ad avere un predominio schiacciante sulle altre, in campo tecnologico, politico, militare, culturale e chi più ne ha più ne metta?

Non che Diamond sia il primo a porsi quest’interrogativo, ma finora le spiegazioni tentate gli appaiono carenti oppure si fondano su presupposti non più accettabili, ovvero sulla convinzione che alcune società, in pratica quella dell’uomo bianco nord-occidentale, siano sostanzialmente “migliori” di altre, da un punto di vista biologico, razziale, antropologico. Diamond, chiaramente, non accetta alcuna teoria razzista, e anzi nel suo libro si sforza di dimostrare che, se è innegabile che le disparità esistano, se si risale alle loro cause più remote esse sono spiegabili senza doverne attribuire alcun “merito” alle società più avanzate, che hanno potuto sfruttare meglio, o da più tempo di altri, particolari vantaggi o condizioni “fortunate”.

Il “segreto” della diversità delle sorti delle varie società umane, per Diamond, è se si sia riusciti a passare, e se sì con quale anticipo o ritardo rispetto agli altri, dalla fase di cacciatori-raccoglitori a quella di agricoltori-produttori di cibo. Essere in grado di produrre cibo tramite l’agricoltura fornisce il presupposto per poter sviluppare e sfruttare poi una serie di vantaggi ulteriori: la capacità di sostentare popolazioni più numerose, e di accumulare surplus di cibo, dà la possibilità di sostentare anche individui non impiegati direttamente nella produzione del cibo ma più specializzati, come artigiani, tecnici, o che svolgono funzioni di comando, come capi, guerrieri, sacerdoti. Questo permette uno sviluppo più significativo della tecnologia, a cominciare da un’invenzione fondamentale come quella della scrittura, e l’organizzazione in sistemi politici più complessi e coesi (dalla semplice banda, forma di aggregazione adatta alle società più semplici, ai regni o Stati). Ma non solo: la maggiore densità di popolazione, dovuta alla più elevata disponibilità di cibo, la presenza di più animali addomesticati, che vivono a stretto contatto con l’uomo, rendono anche più endemiche le malattie e le epidemie. L’uomo si “abitua” a convivere con una più vasta gamma di batteri e quindi diventa, col passare delle generazioni, progressivamente più resistente a una serie di malattie. Nella storia le conseguenze dell’arrivo di società portatrici di germi sconosciuti ad altre sono ben note: basti pensare al caso eclatante della conquista delle Americhe da parte degli Europei.

Ma, se in alcune zone del mondo questo fondamentale passaggio è avvenuto prima (sembra che la zona con evidenze archeologiche più antiche di società agricole sia la Mezzaluna Fertile, in Asia minore) e in altre dopo, o mai (in Australia ad esempio), ciò non vuol dire che alcune società siano più “intelligenti” di altre, ma semplicemente che hanno avuto la fortuna di vivere in ecosistemi più favorevoli e predisposti. In particolare, per Diamond, in Eurasia si è verificata una combinazione di circostanze particolarmente felici: si tratta della più grande massa di terra emersa del pianeta, orientata secondo un asse in direzione est-ovest (che facilita la diffusione delle stesse specie animali e vegetali e gli spostamenti di persone, merci, informazioni perché vi sono minori variazioni climatiche da un luogo all’altro e ovunque la medesima quantità delle ore di luce durante il giorno), e in cui si concentra la maggiore presenza di varietà di semi e di specie animali con le caratteristiche più adatte a renderli più facilmente addomesticabili dall’uomo. Tutti elementi presenti in misura molto minore, o assenti del tutto, in altre zone: come ad esempio il continente americano, che pure vide fiorire società altamente evolute e complesse, ma a cui mancarono (fino alla forzata introduzione da parte degli Europei) una varietà di semente dalle proprietà altamente nutritive come il grano, un animale sommamente utile per il lavoro agricolo, per il trasporto e per la guerra come il cavallo, e che infine presentava alcune caratteristiche fisiche che penalizzavano i contatti fra le diverse popolazioni (asse nord-sud, l’effetto “collo di bottiglia” all’altezza dell’istmo di Panama).

A giudicare da questo mio “riassuntino”, suona tutto un po’ arido e meccanico, ma in realtà il libro è interessante e accessibile anche al lettore non specializzato: forse pecca un po’ di ripetitività, ma d’altra parte è comprensibile che l’autore cerchi di portare quanti più esempi possibile a sostegno della sua tesi, o si provi ad applicarla a casi specifici in diverse zone del mondo. D’altra parte così forse riuscirò a non dimenticare tutto in breve tempo.

Jared Diamond, Guns, Germs, and Steel, voto = 3/5

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L’officina della guerra

Progetto prima guerra mondiale: parte 4
La prima guerra mondiale è da sempre un argomento che mi interessa particolarmente, non tanto dal punto di vista strategico-militare, quanto per l’impatto che ebbe sull’immaginario collettivo europeo e mondiale e gli strascichi che lasciò. Col tempo, ho messo insieme una (piccolissima) raccolta di libri, fra saggi e romanzi, sull’argomento. Nel primo centenario dello scoppio della guerra (1914-2014), mi propongo di leggerli.
Già letti in precedenza (e commentati qui): Bollettino di guerra, Plotone di esecuzione, I fogli del capitano Michel, Scritture di guerra, Ci rivediamo lassù, La paura, Compagnia K

Purtroppo, per svariati motivi, diverso tempo è passato dalla fine della lettura alla stesura di questo post, pertanto quel che sarò in grado di fare sarà, più che una vera e propria “recensione”, una specie di sintesi stringatissima dei temi trattati in questo saggio. Servirà alla mia memoria e spero comunque che, magari, invogli qualcuno a prenderlo in mano.

Partito da uno spunto “casuale” (l’essersi imbattuto, nel corso di ricerche presso l’Archivio storico della Provincia di Genova, in un fascicolo dal curioso titolo “Maniaci militari”), l’autore ha deciso di affrontare, in questo saggio uscito in prima edizione nel 1991 (un periodo in cui ancora, a suo dire, l’uso delle fonti “popolari” per lo studio della Grande Guerra era a uno stadio quasi pionieristico), il problema di perché, in quanti e quali sensi la prima guerra mondiale viene generalmente, e secondo lui correttamente, vista come una frattura che introduce l’umanità nel mondo “moderno”. Solo per le sue dimensioni planetarie, o anche perché determinò precise trasformazioni nel “mondo mentale”?

Alcuni “sintomi” e anticipazioni di quel che era di là da venire si ebbero, su scala minore, nel corso della guerra russo-giapponese del 1904-1905: che le guerre fossero sempre state cruente e distruttive, dei corpi dei combattenti e dell’ambiente naturale, è certo, ma per la prima volta davanti agli occhi di chi la visse e la raccontò (ad es. il celebre giornalista italiano Luigi Barzini) si scatenò la violenza di tecnologie capaci di avvicinarsi, e talvolta addirittura di sostituirsi agli sconvolgimenti di origine naturale quali terremoti e inondazioni. Ancora di più questo doveva avvenire nella guerra del 1914-18, i cui fronti, per i soldati assolutamente impreparati a quello spettacolo, furono incredibili e assordanti scenari dove il rumore del cannone era una presenza costante e i bagliori e gli scoppi interrompevano la naturale successione del giorno e della notte.

Guerra “moderna” e “nuova” anche per l’inusitata capacità di “invasività” nella vita del singolo: sebbene già fin dall’epoca delle guerre napoleoniche il potere coercitivo dello Stato si fosse fatto sempre più stringente, mai come ora le tradizionali forme di fuga e imboscamento, di renitenza alla leva, si dimostrarono estremamente difficili se non impossibili. Gibelli intende tuttavia il potere di “mobilitazione” dello Stato anche in senso “positivo”, e cioè con uno sforzo senza precedenti sulla propaganda.

Ma, soprattutto, l’autore sottolinea il carattere “moderno” del modello di soldato cercato e plasmato dalla guerra: una massa di combattenti “anonima”, forza bruta, non specializzata, adatta a compiti ripetitivi e i cui scopi ultimi, per i più, dovevano risultare poco comprensibili, in una parola quasi “bestiale”, in parallelo con il contemporaneo sorgere dei modelli di produzione del taylorismo e del fordismo, specialmente in USA.

Di fronte a una tale macchina, l’unica via di “fuga” per il singolo (e qui si ritorna al nucleo originario della ricerca) diventa “immaginaria”, più che reale: la follia, vera o simulata, del soldato, analizzata principalmente attraverso le testimonianze dei medici militari, i quali per altro sono più agenti del potere che terapeuti, visto che la loro preoccupazione principale è cogliere gli “indizi” della simulazione, che per noi, abituati a cercare un rapporto di collaborazione fra medico e paziente, suona paradossale (qui si può parlare piuttosto quasi di una “sfida” tra medico e paziente!).

In ultimo, guerra “moderna” anche per i mezzi usati per la prima volta per raccontarla: cinema e fotografia.

Antonio Gibelli, L’officina della guerra, voto = 3,5/5

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Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello…

Preso in biblioteca, dove ero andata per cercare Ossa nel deserto, d’impulso, naturalmente attirata dal titolo choc.
Il saggio ha per oggetto un caso giudiziario ritrovato negli archivi, un caso clamoroso per la ricchezza e la completezza della documentazione ma che, tutto sommato, attirò l’opinione pubblica solo brevemente, e finì dimenticato. Michel Foucault lo usò per un seminario al Collège de France nel 1973, il cui risultato è questo libro, diviso in due parti: la prima è l’edizione di tutti i documenti del processo, la seconda contiene dei brevi saggi di analisi di Foucault e dei suoi allievi.

Siamo nel Calvados, nella Francia del nord, nel giugno 1835: Pierre Rivière, contadino, vent’anni, massacra a coltellate la madre, la sorella diciottenne e il fratello di soli sette anni, affermando di voler “liberare il padre”, e fugge nei boschi. Viene aperta un’inchiesta, vengono ascoltati i primi testimoni, che subito riferiscono del carattere cupo e solitario del giovane, delle sue presunte “stranezze”, della sua generale fama di “idiota”, mentre si cerca in ogni dove il fuggitivo. Circa un mese dopo, Rivière viene identificato e arrestato; in un primo momento, risponde agli interrogatori in modo delirante, affermando di aver ucciso i familiari perché gliel’ha ordinato Dio in una visione. Successivamente, però, prende la penna e realizza una lunghissima, dettagliatissima memoria (le cui primissime righe, “Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello…”, sono proprio il titolo del libro), sorprendente per un contadino che afferma di sapere appena leggere e scrivere e che era da tutti considerato scemo o mezzo matto, in cui racconta nel dettaglio le sue motivazioni. Racconta di una situazione familiare disastrata, del padre che, a suo dire, da anni era ingiustamente vessato e perseguitato dalla moglie, madre di Pierre, donna cattiva, egoista, meschina, avida e prepotente. Un racconto penoso, fra liti per motivi economici, la morte di un altro fratellino, riportato con estrema vivezza (i curatori dell’edizione hanno mantenuto la struttura, l’ortografia e la punteggiatura dell’originale, e allo stesso criterio si sono conformati i traduttori italiani) e stupefacente precisione di dettagli, in cui protagonista, più che Pierre testimone della rovina della sua famiglia, emerge suo padre, una specie di Giobbe ignaro che sta per accadergli ben di peggio. Affezionatissimo al padre, Pierre finisce per convinversi di doverlo liberare della donna che gli sta rovinando la vita, della sorella, sua alleata, e nel suo delirio progetta di uccidere anche il fratellino, perché amava la mamma e perché, poiché il padre lo aveva caro, ucciderlo avrebbe spento qualsiasi residuo di amore che il genitore poteva provare per lui, Pierre, e quindi evitare che soffrisse quando Pierre, votato al martirio per lui, sarebbe stato condannato a morte per il crimine compiuto. Il massacro in sé è trattato da Pierre in poche righe, e segue il racconto del suo peregrinare nei boschi, la realizzazione di quel che ha fatto, la disperazione, i tentativi di suicidio, i propositi di consegnarsi alla giustizia, l’indecisione, i tentativi di farsi passare per pazzo una volta arrestato.
Seguono, nel dossier, gli atti del processo, in cui la questione centrale fu stabilire se Pierre Rivière fosse sano di mente o pazzo, e quindi potesse essere responsabile delle sue azioni o no. Solo da pochi anni, infatti, in Francia erano state introdotte le circostanze attenuanti e la valutazione sullo stato mentale dell’imputato: al caso si interessarono dunque i più eminenti specialisti del tempo di una branca della medicina relativamente nuova, la psichiatria: chiaramente la memoria di Rivière e le testimonianze vennero usate per giungere a interpretazioni diametralmente opposte: i giudici cercarono di trovarvi la prova della sua normalità, i medici della sua follia. Il processo si concluse con una condanna a morte (novembre 1835), anche se nella sentenza la giuria non poté trattenersi dall’esprimere qualche dubbio: decisivo fu l’intervento di un gruppo di eminenti e influenti medici, che portarono alla concessione della grazia e alla commutazione della pena nel carcere a vita. La conclusione di questa cupa vicenda è però altrettanto dolorosa: Pierre Rivière si suicidò nella sua cella nel 1840.

Come “confessano” anche i curatori, gli atti del processo e soprattutto, naturalmente, la Memoria hanno una “bellezza” sinistra talmente potente, un “gusto” narrativo che la lettura scorre rapida, come un romanzo nero che precipita inesorabile nella catastrofe. Come ho già detto, per tutto il tempo nella mia mente non c’era tanto Pierre Rivière, sebbene fin dal titolo (“Io, Pierre Rivière…”) i curatori vogliano metterlo con forza al centro del discorso, quanto suo padre. Ma non è solo la memoria, che pure è il documento più sconvolgente, a stregare il lettore contemporaneo, anche le testimonianze degli abitanti del villaggio, con i loro racconti terrorizzati, malevoli, dubbiosi, sconvolti, i ritagli di stampa, il dossier con le differenti ipotesi sulla follia o sulla lucidità dell’imputato contribuiscono a creare questo “miracolo” archivistico. Proprio una “bella” (bella? Tragica, emozionante, dolorosa, spaventosa) lettura, nella prima parte. E la seconda parte?

La seconda parte, con i saggi di Michel Foucault e dei suoi allievi, è incomprensibile. Forse due contributi si salvano, quello di Blandine Barret-Kriegel sull’accostamento parricidio-regicidio e quello di Robert Castel sulle diverse conclusioni tratte dalla Memoria dai giudici e dai medici. Del resto, non c’ho capito niente. E dire che non vedevo l’ora di leggere la ricchezza delle interpretazioni e delle suggestioni che un documento tanto originale e tanto prezioso poteva donare. Delusione tremenda, tanto più che il documento che precedeva offriva tantissimi spunti all’analisi. Questo mi preoccupa perché avevo intenzione di leggere un altro libro di Foucault, Sorvegliare e punire: se è scritto allo stesso modo, sarà una fatica sprecata.

Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello…, a cura di Michel Foucault (trad. Alessandro Fontana e Pasquale Pasquino), voto = 2,5/5

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Anche il Re Sole sorge al mattino

In realtà io volevo comprare La giornata di Luigi XIV, di Béatrix Saule (Sellerio), ma non si trovava. Allora ho preso questo, perché “sarà uguale”, mi sono detta. Beh, non proprio, perché mentre il libro della Saule descrive, momento per momento, una giornata in particolare della vita del sovrano, e precisamente il 16 novembre 1700, qui ci viene presentata la sua “giornata-tipo”, quindi tutte e nessuna.

Fino a qualche tempo, non mancavo mai di visitare, ove ve ne fosse una, le “reggie”: e così ho visto Versailles, Sans-Souci (Potsdam), la Residenz (Monaco), lo Schönbrunn (Vienna), Holyrood (Edimburgo), e forse qualche altro che non ricordo. Tempo fa qualcuno (mia madre? mio fratello?) mi ha fatto notare che alla fine si somigliano tutte. In effetti, non è un’osservazione del tutto sbagliata: molto spesso si finisce per vedere una serie di stanze per lo più semivuote, e non è facile farsi un’idea di come dovevano essere quelle stanze vissute e abitate e animate dalla folla di gente della corte. Naturalmente, si potrebbero fare tanti esempi di opere di finzione ambientate negli ambienti di corte, che riportano dunque quelle stanze “alla vita”: visto l’argomento di questo libro, mi viene in mente quello del film Vatel (2000): lo andai a vedere principalmente per Tim Roth, tutti lo stroncarono e probabilmente a ragione (forse aveva un tono “moralisteggiante” e antistorico), ricordo però che a me piacquero le scene della “vita di corte” (c’era Luigi XIV, ma non era Versailles). Spesso però le ricostruzioni sono belle da vedere ma trascurano, per semplicità ed esigenze di copione, tanti dettagli, non riescono a dare un’idea delle formalità e delle etichette. Questo breve libro, molto gradevole da leggere, ne dà invece un’idea: dalle sette di mattina fino a mezzanotte, assistiamo al lever del Re Sole, scena ormai famosissima, la vestizione, la rasatura e la pettinatura, con la posa dell’inconfondibile parrucca, la Messa quotidiana, il pranzo, la caccia, il ballo o gli altri divertimenti serali, la buonanotte.

Ancora una volta si può constatare quanto il XVIII secolo abbia costituito un punto di cesura e quanto del nostro gusto e dei nostri schemi mentali risalga a quell’epoca. Tante delle cose che il XVII secolo accettava come ovvie, siamo oggi portati a considerarle assurde o quanto meno incomprensibili se applichiamo la nostra scala di valori: l’indeterminatezza del confine tra privato e pubblico, l’affettazione come qualità e non come difetto, la “rappresentazione” di se stessi, il diverso concetto dell’individuo e dell’individualità in una società che invece valorizzava di più l’appartenenza a una categoria, a una discendenza ben definita (l’essere “figlio di”: figlio di re, e “nato per esserlo”, come si autodefinisce lo stesso Luigi XIV nelle sue memorie, ma anche figlio del Primo cameriere e, per certi versi, ugualmente “nato per esserlo”, visto che la mansione spesso veniva tramandata di generazione in generazione). Vengono smontati alcuni luoghi comuni o immagini cristallizzate, come l’associazione “automatica” della figura di Luigi XIV a Versailles: in realtà il re visse stabilmente in quella reggia solo nell’ultimo periodo del suo lungo regno, e a lungo proseguì la secolare tradizione dei sovrani francesi di tenere una corte itinerante e quasi sempre in viaggio. L’autore “tradisce” il suo interesse accademico per il teatro di prosa e il teatro musicale con l’ampio spazio dedicato alla figura di Molière (che fu, oltre che drammaturgo, cameriere-tappezziere del re: cioè rifaceva il letto del re ogni mattina), ai paralleli fra i personaggi e le scene della corte e alcuni passaggi delle sue opere, ai balli di corte e al ruolo che Luigi XIV vi svolgeva. Bella anche la Prefazione di Giuliano Ferrara.

Interessanti i paragoni (già notati all’epoca: anzi, il paragone lo fa proprio Luigi nelle sue memorie) tra due diverse concezioni dell’autorità regia: ad alcuni paesi (sottinteso chiaramente la Spagna) in cui l’autorità del re è tanto più grande e “terribile” quanto meno egli si mostra ai suoi sudditi, si contrappone la Francia, in cui invece il re è accessibile, esposto quotidianamente (e quasi costantemente) allo sguardo dei suoi sudditi, e teoricamente tutti possono avvicinarlo (quando il re rientrava al Louvre dopo aver assistito alla messa nell’adiacente chiesa di Saint-Germain-l’Auxerrois, quello era il momento in cui chiunque poteva fermarlo con richieste, petizioni, ecc.).

Purtroppo verso la fine l’autore si “distrae” e abbandona un po’ la struttura a mo’ di cronaca ora per ora della giornata-tipo del re, per mettersi a parlare (ancora!) della celebre sequenza di amanti reali (La Vallière-Montespan-Maintenon) che è già vista e rivista. Di conseguenza le ore serali sono trattate in modo un po’ affrettato (ma d’altra parte sono anche quelle più libere e meno regolamentate). Meno dettagliate anche le ore della mattina dedicate alle riunioni del re con i ministri: facile capire perché, avvenivano a porte chiuse e quindi non sono molti i resoconti, peccato, potevano essere utili a correggere un’immagine un po’ “frivola” che potremmo essere tentati di associare a Luigi XIV.

Philippe Beaussant, Anche il Re Sole sorge al mattino (trad. Laura Pugno), voto = 3,5/5

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The Fatal Shore

Mi piacciono i libri che hanno per tema viaggi, avventure per mare, scoperte, incontri (e spesso scontri) con culture diverse e sconosciute, ambientazioni per noi “esotiche”: alcuni esempi (fra le letture migliori) sono la “trilogia degli schiavi” di Hansen, la “trilogia di Haiti” di Bell, Il cimitero del Batavia di Dash, i saggi e i romanzi sulla conquista del Messico.
Anche questo saggio di Robert Hughes, The Fatal Shore (pubblicato in Italia da Adelphi col titolo La riva fatale), ha per argomento la storia del continente ignoto per eccellenza, la mitica “terra australis” cercata per secoli e variamente collocata e immaginata, che ancora oggi per molti simboleggia l’altrove, la lontananza più assoluta: l’Australia, appunto.

Pubblicato, significativamente, nel 1987, cioè nell’anno precedente al bicentenario del primo insediamento occidentale in Australia, questo saggio però è tutt’altro che celebrativo delle “glorie passate”. Nell’introduzione, infatti, l’autore ricorda la grande “rimozione” attuata dalla storiografia e dalla società australiane sulle origini della nazione, e cioè la sua nascita come colonia penale dell’impero britannico. Sembra infatti, secondo quanto dice Hughes, che, almeno fino agli anni sessanta del XX secolo, quest’argomento fosse quasi tabù, vi si accennasse solo velatamente e senza indugiarvi, tanta era la “vergogna” degli australiani nel ricordare di essere “discendenti di criminali”. D’altra parte, il rischio opposto era l’eccessiva “romanticizzazione” di tale passato, con la convinzione consolante ma illusoria che tutti i deportati in Australia fossero perseguitati politici, combattenti per la libertà, piccoli proprietari che costituivano la “parte sana” della società britannica, o che i “bushrangers“, figura mitica della cultura popolare australiana, prigionieri evasi e riuniti in bande nascoste nello sterminato e inesplorato entroterra, incarnassero l’archetipo del “romantico brigante”, del Robin Hood che ruba ai ricchi per dare ai poveri.
La realtà fu diversa, non serve nasconderla né abbellirla, e Hughes, nel suo ponderoso volume, procede ad abbattere un bel po’ di “falsi miti”.

Si parte con un’analisi della società britannica in epoca georgiana, un po’ più cruda dell’immagine rosata dei romanzi austeniani, in cui le classi dominanti assunsero un atteggiamento sempre più repressivo verso i reati contro la proprietà, applicando pene draconiane (spesso anche la pena capitale) per reati che oggi considereremmo “minori” (furti, anche di assai lieve entità, truffe). Vero è che questa terribile severità veniva attenuata dalla prerogativa sovrana di concedere la grazia, ma l’enorme numero di criminali condannati dava luogo al grave problema delle prigioni, che, alla fine del Settecento, erano ormai troppo poche, sovraffollate, ingestibili. La “soluzione” praticata fino a quel momento, e cioè la deportazione di parte dei detenuti nelle colonie americane, era diventata ormai, dopo l’indipendenza degli Stati Uniti, improponibile. Per una coincidenza, provvidenziale per il governo di Sua Maestà, proprio nello stesso torno di anni (1770) la spedizione capitanata da James Cook aveva finalmente scoperto la mitica terra australis, il continente australiano…
L’idea di alleggerire le prigioni spedendo i criminali letteralmente in capo al mondo sembra, sulla carta, una pazzia, e infatti si iniziò a considerarla seriamente solo dopo alcuni anni di “emergenza carceri”. Ufficialmente, la Prima Flotta partita dall’Inghilterra nel 1787 (e arrivata a Botany Bay, dove sorgerà la futura Sydney, all’inizio del 1788) aveva anche altri scopi, oltre a scaricare il primo gruppo di detenuti, uomini e donne: recupero di materie prime per la costruzione di navi, conquista di una posizione strategica nello scacchiere mondiale. In realtà, divenne ben presto chiaro che la neonata colonia del Nuovo Galles del Sud (New South Wales) non sarebbe stata di nessuna utilità per la madrepatria se non, appunto, come “discarica” in cui gettare gli elementi indesiderati.

Inizia così la storia dell’Australia, a lungo non più di una immensa prigione, popolata solo da detenuti e guardie (e poi ex detenuti), in cui i criminali condannati scontavano gli anni di pena ai lavori forzati e potevano poi scegliere se tornare a casa o cominciare una nuova vita dall’altra parte del mondo. Solo in seguito la Corona iniziò a favorire progetti di colonizzazione di sudditi liberi, cui venivano “assegnati” come lavoranti alcuni detenuti, che in tal modo scontavano la loro pena.

Ho tracciato a grandi linee il contesto in tono molto “neutro” e distaccato, ma in realtà il bel saggio di Hughes, ormai un classico, è un lungo e straziante catalogo di atrocità. Per cominciare, quelle sui detenuti, strappati brutalmente e spesso definitivamente dal loro mondo di affetti, “gettati” in una terra completamente incognita, spesso ostile. L’idea che la pena dovesse servire non solo a punire ma anche a rieducare era di là da venire: no, la deportazione, in concreto, serviva a sbarazzarsi dei detenuti in eccesso per evitare di doverci pensare più, ma anche, e forse soprattutto, come deterrente per i “potenziali” criminali rimasti in patria. Perché la prospettiva di essere spediti in Australia ispirasse l’auspicato terrore, era necessario che il trattamento dei detenuti fosse estremamente severo e disumano, e difatti queste furono a lungo le istruzioni impartite da Londra ai governatori della colonia, tanto che si rese “necessario” creare dei luoghi di reclusione di massima sicurezza, dei gulag ante litteram, destinati ai recidivi e ai prigionieri più incorreggibili, dalla fama sinistra e tremenda, quali Van Diemen’s Land (l’attuale Tasmania) e soprattutto Norfolk Island, una piccola isola dell’Oceano Pacifico, l’ultimo gradino nella scala delle crudeltà e delle umiliazioni riservate ai prigionieri.
Personaggi come Alexander Maconochie, che per alcuni anni governò proprio l’isola-prigione di Norfolk Island e che fu tra i primi a credere fortemente che fra i suoi compiti vi fosse anche quello di riabilitare i detenuti, furono rari (Maconochie era troppo avanti sui tempi e venne allontanato e dimenticato: giustamente Hughes gli dedica un ampio ritratto).
Ciò nonostante, l’autore non tralascia di ricordare le insperate opportunità che si aprivano a chi, finito di scontare la pena, decideva di stabilirsi per sempre in quel nuovo continente: intanto, non sempre i detenuti venivano messi nelle mani di sadici aguzzini, e poi vi era a disposizione una terra ancora vergine e inesplorata, a buon mercato, e il costo del lavoro era notevolmente più alto che in Inghilterra. Per cui, non furono pochi quelli che, nelle lettere a casa, arrivano a considerare una “fortuna” la deportazione, e invitano i familiari a raggiungerli.

Al “catalogo delle atrocità” di cui sopra vanno aggiunte anche quelle contro le popolazioni aborigene e (trattate meno approfonditamente) contro l’ecosistema originario australiano. Le tribù nomadi locali, sparse nell’immensità dei territori, sorpresero i primi europei per la loro cultura radicalmente diversa, che praticamente non conosceva il concetto di proprietà. Di conseguenza, all’inizio, gli aborigeni reagirono quasi con “indifferenza” di fronte alla lentissima ma costante avanzata dei colonizzatori che, metro dopo metro, si impossessavano del territorio: quando poi iniziarono a contrattaccare, era ormai troppo tardi. In verità, l’atteggiamento ufficiale del governo della colonia era improntato al massimo rispetto verso gli aborigeni: per la prima comunità, così esigua, era naturalmente conveniente avere gli aborigeni come alleati piuttosto che inimicarseli. Furono più che altro i coloni, i proprietari, di estrazione libera o ex detenuti, specialmente quelli delle zone più periferiche che più direttamente entravano in contatto con le popolazioni locali, e i detenuti ad assumere un atteggiamento ostile o violento (spesso infatti gli aborigeni, forti della loro conoscenza del territorio superiore a qualsiasi occidentale, collaboravano con le autorità per ricatturare i fuggitivi, da cui l’odio con cui erano visti dai prigionieri: Hughes fa a pezzi così un altro falso mito di una sorta di “vicinanza” fra gli “oppressi”).

Ricordo solo brevemente alcuni dei tantissimi aspetti del “transportation system” che l’autore tocca: dalle analisi statistiche sui reati e sull’estrazione sociale dei detenuti, ai racconti delle traversate oceaniche in condizioni spesso disumane; dalla storia del primo insediamento, con i durissimi problemi di carestia affrontati, a quella dell’unica minoranza socialmente e politicamente rilevante che venne deportata in Australia, gli Irlandesi; dalle storie epiche e spesso violente e tragiche dei tentativi di fuga dei più indomabili, allo strisciante “senso di inferiorità” della buona società australiana, preoccupata di conservare scrupolosamente e ossessivamente tutte le convenzioni dell’etichetta, per apparire “più inglese degli inglesi”.

Insomma, una lettura che ha richiesto molto tempo, ma interessantissima e piena di vite, di storie, di persone, di sofferenze e di riscatti.

Robert Hughes, The Fatal Shore, voto = 4/5

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Se potessi avere

Visto sul catalogo della casa editrice il Mulino, questo libro presenta una serie di frammenti, in genere molto brevi (2-3 pagine in media), selezionati fra le testimonianze conservate nell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano (Arezzo), un’istituzione che raccoglie diari, lettere, memoriali, autobiografie di gente “comune”, dalle quali si colgono tanti preziosissimi spunti di ricerca.

Il filo conduttore che i curatori hanno voluto dare a questa antologia è quello del denaro. Sono storie in cui, 9 volte su 10, il denaro è al centro del discorso per la sua mancanza, sono rari i racconti di “successo”: ci sono, quindi, tanta sfortuna e tante amare recriminazioni, ma allo stesso tempo anche voglia di fare, audacia, inventiva, solidarietà.

Naturalmente non c’è solo il denaro in queste pagine, o meglio il tema del denaro è anche un pretesto per parlare (e leggere) d’altro: lettere d’amore, diari, crisi personali, successi e rivalse (pochi), dalla fine del XVIII secolo fino ai primi anni Duemila, che vedono protagonisti tanti, diversissimi personaggi: il tenore che negli anni trenta dell’Ottocento canta alla corte di Spagna, l’emigrato toscano in Francia, il giovane orfano che, nei primi anni del Novecento, tiene nascosta alla madre ansiosa l’iscrizione al sindacato, l’adolescente fantasioso che negli anni della prima guerra mondiale fa uscire un curioso “giornale” con le notizie di famiglia, il commissario prefettizio tutto d’un pezzo che, in epoca fascista, viene mandato in un paesino siciliano controllato dalla mafia, i due giovani che organizzano la “fuitina”, la ragazzina che accumula i soldi della paghetta per comprarsi lo stereo negli anni ottanta, il consulente finanziario sempre più vittima dello stress, la precaria che deve difendersi dalle avances del capo.

L’unico “difetto” del libro è che… sono appunto frammenti, troppo brevi: abbiamo solo un rapidissimo flash su queste vite, si cambia pagina, epoca, protagonisti, e non sapremo mai (a meno di non andare a Pieve Santo Stefano a consultare l’originale, ovvio!) come finisce “la storia”.

Se potessi avere. Memorie degli italiani ai tempi della lira, a cura di Diego Pastorino, voto = 3/5

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Furta sacra

Sorprendentemente, il tema di questo saggio, Furta sacra. La trafugazione delle reliquie nel Medioevo, risulta ancora attualissimo, a giudicare dalle notizie di questi giorni…

E va beh, ho voluto esordire con una battuta ad effetto, ma in realtà i confronti fra la cronaca di oggi e i furti di reliquie nel Medioevo sono improbabili: tanto per cominciare, all’epoca, a scassinare tombe e reliquiari e a portarsi via ossa e corpi erano spesso uomini di Chiesa, e tali furti erano celebrati e approvati dalla comunità e ampiamente pubblicizzati!

Un’altra occasione, dopo Image on the Edge, per scoprire un Medioevo molto meno “paludato” di quanto si immagini, e molto più disinvolto in materia di religione, tanto da suonare quasi scandaloso alle nostre orecchie. Per dirlo in modo più corretto, un altro esempio di come la sensibilità religiosa di allora si esprimesse in modo molto diverso.

L’importanza e il valore delle reliquie nel Medioevo sono ben noti, e Geary lo sottolinea soprattutto in relazione al periodo preso in esame, i secoli IX-XI, il cosiddetto Medioevo centrale, in cui il culto delle reliquie dei santi divenne tanto pervasivo che sembra addirittura offuscare, talvolta, la stessa devozione a Cristo. La generale instabilità politica e sociale e le frequenti, concrete minacce alla sicurezza (in questi secoli l’Europa conobbe le incursioni di saraceni, Ungari, Normanni, oltre alla conflittualità endemica fra i nobili locali) furono i motivi più evidenti per cui piccole e grandi comunità monastiche o diocesi compivano grandi sforzi per procurarsi protezione ultraterrena… senza trascurare naturalmente il prestigio dovuto al possesso della reliquia di un santo famoso, o le prospettive di ricavi economici se il santo attirava pellegrini alla sua tomba.

Certamente era possibile procurarsi reliquie in modo “legale”, tramite donazioni o acquisti. Esisteva anzi un vero e proprio business del traffico di reliquie, per il quale l’autore ricorda soprattutto la figura del romano Deusdona, vissuto nel IX secolo, che con i fratelli aveva messo su proprio un’impresa “di famiglia”, prelevando la “merce” dalle catacombe romane, all’epoca in stato di semi-abbandono e incustodite, e ripiazzandola poi presso abati, re e nobili del Nord Europa, o addirittura lavorava su “commissione” accettando “ordinazioni” per questo o quel santo. Ma, paradossalmente, venire in possesso di una reliquia attraverso il “volgare” commercio era considerato quasi più “disonorevole” che rubarla; oltre ciò, la convinzione diffusa era che fidarsi dei trafficanti di reliquie di “professione” esponesse maggiormente al rischio di essere truffati e di acquistare reliquie false (contrariamente a quanto comunemente si pensa oggi, si cercava di fare accertamenti sull’autenticità delle reliquie, solo che spesso l’unico “metodo” veramente praticabile era una sorta di verifica ex post: se la reliquia dava luogo a miracoli, si poteva “ragionevolmente” concludere che fosse autentica).

Questo spiega perché talvolta le narrazioni riguardino furti in realtà mai avvenuti, immaginari: è chiaro infatti che ci si trova di fronte a testi che non possono essere letti come “cronache”, ma che appartengono a un preciso genere letterario. Più importante di stabilire se furto ci fu o se avvenne esattamente come ci viene raccontato (e, inutile dirlo, più importante di sapere se la tale reliquia fosse autentica o meno), è capire perché si sia formata questa “tradizione” cui poi via via ciascuno scrittore finì per uniformarsi e cercare la propria giustificazione.

Il “saccheggio” non sempre avveniva senza il consenso del “derubato”: interessante l’accenno di Geary al ruolo attivo, o quanto meno cosciente e forse accondiscendente, del papa, vescovo di Roma, di fronte allo “shopping” di resti provenienti dalle catacombe dei primi cristiani da parte di monaci franchi: in un’epoca in cui la supremazia del vescovo di Roma non era ancora un fatto pienamente accettato, tornava comodo al prestigio papale l’altissimo valore tributato alle reliquie dei primi martiri romani, “distribuite” ed esportate nel resto d’Europa.

Non erano solo le reliquie provenienti da Roma a essere particolarmente ambite, comunque: altri luoghi da cui venivano trafugate (o da cui si diceva fossero state trafugate, che, per i fini della ricerca, è lo stesso) erano l’impero bizantino, il Nord Africa e la Spagna (sotto la dominazione musulmana): gusto per l’esotico, nonché il vantaggio di chilometri di distanza che potevano impedire rivendicazioni o smentite.

Se nel Nord Europa al centro di questi traffici erano soprattutto potenti abati, sovrani e nobili, in Italia erano la comunità cittadine ad attivarsi per assicurare alla città il possesso di un qualche santo: celeberrimi i casi di Venezia con s. Marco e di Bari con s. Nicola, che infatti si rivelarono, in entrambi i casi, mosse azzeccatissime per le future fortune politiche, economiche e religiose delle due località.

Interessante anche il capitolo sulla percezione di questi atti (che, come detto, ai fini della ricerca non è importante se siano storicamente avvenuti o no, o avvenuti esattamente come ci sono stati tramandati) e su come essi venivano “giustificati”, secondo topoi che si ripetono più o meno uguali in tutte le fonti. Si può sintetizzare il “giudizio” della società dell’epoca con una formula apparentemente contraddittoria: i furti di reliquie erano sì illegali, ma non per questo erano considerati immorali. Attraverso l’analisi dei testi, si ricavano le giustificazioni tipiche del gesto: la volontà di offrire una sistemazione più dignitosa e più illustre o più sicura per le spoglie di un santo, la necessità di protezione avvertita dalla comunità, ma non ultimo anche la “volontà” stessa del santo-reliquia. La reliquia, infatti, lungi dall’essere un po’ di polvere e di ossa, o all’opposto un simbolo astratto del santo, era il santo stesso, quasi fosse ancora vivo, presente, dotato di volontà propria: per giustificare i furti, o al contrario per spiegare i tentativi non andati a buon fine, non è infrequente che si ricorra all’intervento diretto del santo che domanda lui stesso, attraverso sogni e visioni, di essere trasferito, o che si lascia o non si lascia portare via dal luogo in cui si trova sepolto.

È un libro curioso e interessante, ma non semplice o per tutti, comunque: specialmente nelle parti in cui si addentra in datazioni incerte e tradizioni di manoscritti è, inevitabilmente, molto tecnico.

Patrick J. Geary, Furta sacra. La trafugazione delle reliquie nel Medioevo (secoli IX-XI) (trad. Eugenia Fera), voto = 3,5/5

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