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L’ambasciatore di Marte alla corte della Regina Vittoria

Il genere fantascienza non mi è mai interessato granché: l’unica eccezione, per quanto ricordo, è stata la Guida galattica per autostoppisti e seguiti, che comunque considero abbastanza “sui generis” (oh già, e anche il Ciclo di Eymerich: anche lì tuttavia ad attirarmi da principio era stata l’ambientazione medievale). In ogni caso, è stato principalmente merito del titolo, bello e curioso, se ho deciso di dare una possibilità al libro di Alan K. Baker.

In realtà questo romanzo appartiene più al genere dello “steam punk”, e cioè (la definizione è ricavata dalle mie conoscenze con l’aiuto di Wikipedia) l’autore immagina un “passato alternativo” (generalmente l’epoca vittoriana) con corrispondenze con gli eventi realmente avvenuti ma in cui sono introdotte tecnologie simili a quelle odierne, realizzate con i materiali e le fonti di energia del tempo (del genere: computer che funzionano a vapore; steam significa infatti “vapore” in inglese).

Siamo nel 1899, a Londra: sono ormai sei anni che è stato stabilito un contatto fra la Terra e Marte, e le relazioni fra le due civiltà si sviluppano pacificamente. I marziani, immensamente più progrediti, hanno benevolmente condiviso le loro scoperte scientifiche e le loro strabilianti tecnologie con i terrestri. Ma questo stato di cose rischia di essere irrimediabilmente turbato dalla misteriosa morte dell’ambasciatore marziano a Londra, quasi sicuramente avvenuta per cause non naturali. Sulla vicenda viene chiamato a investigare Thomas Blackwood, dell’Ufficio Affari Clandestini di Sua Maestà, che deve cercare di capire se qualcuno non stia cercando di avvelenare i rapporti fra i due pianeti per scatenare una guerra galattica. Contemporaneamente, Londra è anche scossa da una serie di cruenti attacchi di un criminale noto come “Jack il Saltatore”, della cui natura, umana, aliena o demoniaca, nessuno sa capacitarsi, e sul quale indaga Lady Sophia Harrington, della Società sulle Indagini Psichiche (o qualcosa del genere).

Questo romanzo ha avuto la “sfortuna” di capitare in un periodo di “stanchezza”: il giorno in cui l’ho iniziato, avevo prima aperto e messo via insoddisfatta altri quattro libri. Prima di iniziare L’ambasciatore di Marte, inoltre, ero stata “turbata” da due elementi: ho scoperto, credo da qualche commento su Goodreads, che in effetti il romanzo è pensato per un pubblico di adolescenti (o Young Adults, per usare la terminologia in voga) e che è il primo di una serie. Ora, sicuramente il genere Young Adults comprende anche bellissimi titoli, che sono letti e apprezzati anche da adulti, ma a me non interessa; inoltre, il fatto che ormai sia quasi “obbligatorio” pensare ai libri in termine di serie e non di storie autoconcluse mi ha un po’ stufato. Insomma, tutto questo per dire che, già prima di cominciare, l’entusiasmo iniziale era diminuito di molto e sono partita un po’ prevenuta.

In effetti, qua e là si vede che è un romanzo “per ragazzi”, perché la prosa non è eccelsa: abbastanza piatta, semplice, si limita a illustrare gli eventi, non mostra grande originalità (per fare un esempio, la coprotagonista, Sophia, è “la donna più bella che [Thomas] avesse mai visto”: quante volte abbiamo letto questa frase?) e le spiegazioni sulla realtà alternativa in cui ci troviamo vengono inserite senza preoccuparsi troppo di evitare l’effetto infodump (ma, a ben pensarci, questo non è comunque un difetto solo dei romanzi Young Adults, anzi!), i dialoghi praticamente servono solo a rimpallarsi informazioni o a riassumere la situazione per il lettore. La trama contiene una nutrita serie di stereotipi narrativi, e qui di seguito elenco quelli che più mi hanno irritato (quelli che si configurano più apertamente come spoiler li nascondo, per visualizzarli evidenziate il testo): i due filoni di indagine che si incrociano quasi subito, lui & lei che si ritrovano a investigare insieme (e stavolta il pretesto è davvero molto tenue), lui & lei che si innamorano (e non si capisce perché, visto che l’unico argomento di cui parlano, o quasi, è il caso su cui stanno investigando; ma oh, attenzione, pur essendo evidente, il romanzo si conclude senza un’esplicita “dichiarazione”, perché, suppongo, c’è tutta una serie da tirare avanti su questa romantic tension), l’indagine che va avanti con una facilità estrema perché a ogni passo i protagonisti si trovano servito su un piatto d’argento l’indizio successivo (davvero, sarei riuscita a scoprirlo anch’io un “complotto” occultato così maldestramente), una serie di difficoltà apparentemente insormontabili che però vengono risolte all’istante dal deus ex machina (i nostri sono in pericolo? Ecco che il deus ex machina interviene a proteggerli. Il pericolo si fa più severo? Non c’è problema! Il deus ex machina attuerà una protezione più potente. Non c’è più modo di impedire che il cattivo porti a termine i suoi piani? Ma no, il deus ex machina qualcosa si inventa! Naturalmente, alla domanda “se il d.e.m. è così potente, perché non la risolve direttamente lui la faccenda?” viene risposto nel tipico modo usato per liquidare in fretta questa incongruenza narrativa: perché non vuole immischiarsi direttamente nelle faccende degli uomini, è bene che se la cavino da soli). L’autore forse ritiene il suo pubblico scarso di memoria perché, una volta capita la chiave del mistero, la natura e gli scopi del piano criminale, questi ci vengono ripetuti almeno tre volte (dall’investigatore protagonista, dal Parlamento marziano in riunione, nonché naturalmente dal supercattivo che come al solito si sente in dovere di illustrare tutte le sue mosse e il suo movente – che poi è terribilmente banale e indefinito: potere e ricchezze, wow – al personaggio che è caduto nelle sue mani). Oltre tutto, forse io avrò ormai sviluppato una certa forma mentis data dalla lettura di mystery e gialli, ma non capisco che gusto ci sia nel seguire un’indagine se a metà libro si sa già benissimo chi è il “cattivo”.

Inoltre, se non ho capito male le opere steampunk dovrebbero rappresentarci un mondo mai esistito ma comunque “plausibile”, in cui le differenze con la realtà storica hanno presupposti “scientifici”, senza elementi fantasy: invece qui alcune invenzioni sembravano quasi “magiche” (ad esempio: perché il cogitatore, che sarebbe, in modo piuttosto trasparente, l’equivalente ottocentesco del computer e della rete Internet, funziona perché al suo interno ci sono degli “omini”? Che provengono dal Reame Fatato? Non è troppo “fantastico” tutto ciò?). E, se c’è un genere che mi stuzzica anche meno della fantascienza, quello è il fantasy. (Per non dire nulla della bizzarra e allucinante “parentesi” che si apre più o meno all’80% del libro, una specie di trip psichedelico nel mondo delle fate che, ovviamente, vivono a contatto con la natura, gli alberi eccetera, che fosse almeno stimolante dal punto di vista immaginativo, invece l’autore la risolve con una serie di dichiarazioni su quanto sia ineffabile la magnificenza di tutto ciò, risparmiandosi la fatica di entrare nel dettaglio).

Soprattutto, a parte i riferimenti inevitabili come la regina Vittoria, Westminster o le carrozze, non si “avverte” che siamo nella Londra dell’800, sia pure in un universo alternativo: poteva anche essere un romanzo di fantascienza “classica”, ambientato nella New York del 2300, e poco sarebbe cambiato; d’accordo, in parte ciò sarà dovuto al fatto che l’autore vuole trattare temi attuali o universali (la corsa sfrenata al progresso che rischia di esaurire e distruggere le risorse del nostro mondo, la paura e la diffidenza di fronte a civiltà diverse), e quindi tende a sottolineare le somiglianze, più che le differenze con la nostra realtà: ma così si perde buona parte dell’originalità dell’ambientazione.

Insomma questo tono “semplicistico” e “giovanilistico” mi ha stancato presto, più che rendermi la lettura facile e divertente e poco impegnativa: purtroppo non potevo fare a meno di pensare “eh, se questo non fosse un romanzo ‘per ragazzi’ magari sarebbe scritto anche meglio, sarebbe più intrigante, meno scontato, più sottile, meno approssimativo…”. Faccio di tutta l’erba un fascio, probabilmente, e forse avrò beccato io un esempio non eccelso del genere Young Adults, o forse semplicemente non riesco a essere coinvolta da questo piacere della ricerca del temps perdu, per cui gli attuali lungometraggi della Walt Disney non mi suscitano lo stesso entusiasmo nostalgico dei miei coetanei, o per cui ricordo con tanto affetto i libretti della serie Vampiretto, e tuttora li conservo accanto al letto, ma non mi metterei mai a rileggerli ora… perché mi sembrano puerili, appunto. C’è a chi piace, non lo metto in dubbio: a me no.

Oltre tutto, annotazione secondaria: il traduttore non si è preso la briga di convertire le unità di misura nel nostro sistema; è una scelta effettivamente legittima, anzi leggo (su Wikipedia) che per le opere di narrativa è addirittura preferibile, per preservare la “cultura” dell’originale. Però io se sento parlare di lunghezze in “pollici” e in “piedi” non ci capisco niente, non riesco a immaginare nulla e mi indispongo.

Bella comunque la trovata della regina Vittoria che, nel 1899, quasi alla fine della sua vita (secondo la storia “normale”), riesce ad avere un aspetto sempre giovanile grazie a “droghe” marziane di cui finisce per essere dipendente (spunto che, peraltro, non viene sviluppato, o forse sarà sviluppato in un successivo romanzo della serie, a questo punto di sicuro senza la mia partecipazione); insomma, un’idea interessante e promettente che si risolve in un pasticcio incredibile, banalotto, scritto maluccio.

Alan K. Baker, L’ambasciatore di Marte alla corte della Regina Vittoria (trad. Marco Crosa), voto = 2/5
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