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Gli Schwartz

Ok, credo di dover scrivere la recensione del libro Gli Schwartz, di Matthew Sharpe. Il blog funziona così, a libro letto corrisponde recensione, l’ho deciso io, e quindi mi tocca. È un romanzo uscito in Italia nel 2005 che da tempo volevo leggere, cioè da quando ne parlarono (in termini favorevoli) in questo articolo del Corriere della Sera. Come spesso mi succede, sono passati tanti e tanti anni da quel giorno, ma ancora una volta hanno “deciso” per me gli altri proponenti del “Pozzo letterario” del mese di Goodreads Italia, nel senso che qualcuno ha tirato fuori proprio questo titolo, riportandomelo alla mente.

Il problema però, evidentemente, è che se fai passare troppo tempo dal momento in cui un libro cattura il tuo interesse a quello in cui lo leggi,  nel corso degli anni i tuoi gusti possono cambiare, e possono non essere più validi i motivi per cui quel libro ti diceva “qualcosa”. Come che sia, mi sono accorta subito che stavo partendo con qualche pregiudizio, e anche con scarsa convinzione. E spesso, quando inizio una cosa con una certa “impostazione mentale”, non mi è facile poi modificarla. Ma di interrompere la lettura non mi andava, anche perché volevo dare un riscontro alla persona che l’aveva consigliato.

Quindi ok, mettiamo pure in conto la mia “impostazione mentale” del 2013 diversa da quella del 2005. Ma non potrà essere solo colpa mia se Gli Schwartz è stata una delle letture più penose che io ricordi. Fin dalle prime pagine mi è sembrato un libro in cui l’autore avverte il bisogno di farci capire ad ogni frase quanto sia arguto, quanto la sua trama sia originale e stramba (come il Libro Che Non Può Essere Nominato, con cui guarda caso vedo molti punti di contatto).

Bernard Schwartz, padre divorziato (la moglie lo ha abbandonato e ora vive in California) e depresso di Chris, diciassettenne nerd e intellettuale, e Cathy, quindicenne da poco diventata da ebrea fervente cattolica, sbaglia la dose di medicinali e finisce in coma. I due ragazzi si ritrovano da soli ad affrontare l’adolescenza e la vita, e a badare a Bernie quando questi esce finalmente dal coma… Seguono tante buffe e strampalate avventure ma anche oh!, tanti toccanti momenti di amore familiare descritti in modo non convenzionale e con graffiante ironia e… oddio, ma perché spreco tempo a riassumere questa roba? Per favore, se vi interessa la trama, leggetela qui o qui o qui.

Ora, io non ricordo molto bene il film I Tenenbaum, cui questo libro viene spesso accostato, ma mi sembra che mi fosse piaciuto: perché purtroppo il suo equivalente letterario si è rivelato secondo me un autentico disastro? Perché, sempre secondo me, se ad ogni pagina a emergere devono essere solo l’ego, il “brillante umorismo” e il “mestiere” di Sharpe, rimane poco spazio per i personaggi, per farli diventare qualcosa di più che megafoni per i suoi pensieri arguti, e per far sì che possa fregarmene qualcosa di ciò che succede loro. Questo libro è illeggibile: una manciata di tizi stupidi (che però si sentono molto intelligenti) e caricaturali che straparlano e sparano di continuo idiozie e fanno cose stupide. Di cui non ci importa nulla. Che per giunta non fanno ridere, per quanto l’autore si sforzi disperatamente e spasmodicamente di farci sbellicare a ogni riga. Né tanto meno fanno “riflettere”. Non lo so perché l’ho finito, forse per cocciutaggine, avrei potuto abbandonarlo subito, anche considerando lo strazio e il malessere fisico e la sensazione di disperazione che si provano ad andare avanti a leggere un libro che stai odiando.

Ma, a parte tutto, non posso dare un buon voto a un libro in cui si leggono idiozie come questa (si parla di Edith Stein): “Papa Pio XII l’aveva beatificata nel 1987” (p. 34). Sì, come no. Ho riletto tre volte per assicurarmi di non avere le traveggole. Non so se la colpa è di Matthew Sharpe, del suo editor, o di qualcuno alla Einaudi, ma chiunque sia dovrebbe andare a nascondersi. Al pari di quello che a p. 93 non ha corretto la frase dì un’altra cosa buffa: invece di di’, seconda persona singolare dell’imperativo del verbo dire. Se lo trovo scritto su Facebook posso anche chiudere un occhio, ma tu fai il correttore di bozze e lavori alla Einaudi, accidenti. Poi un’altra quantità di errori assortiti qua e là, a p. 270 un personaggio di nome Lila che viene confuso con un altro di nome Lisa… Non si salva niente, niente.

Ben presto (all’incirca a pagina 10), il pensiero ricorrente durante la lettura di questo libro è stato “coraggio, non lo vorrei abbandonare, vediamo di arrivare in fondo il più in fretta possibile”: di conseguenza, alle volte scorrevo le righe senza preoccuparmi eccessivamente di assimilare tutte le frasi, tutte le perle di sarcasmo e tutte le Profonde Verità Espresse In Modo Molto Originale che vi erano disseminate, perciò ecco perché questa “recensione” appare molto sbrigativa.

Matthew Sharpe, Gli Schwartz (trad. Matteo Colombo), voto = 1/5

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Chiedi e ti sarà tolto

Esistono anche gli acquisti sbagliati. C’è un bel blog in cui vengono analizzate dal punto di vista grafico le copertine dei libri, si chiama “Who’s the Reader?”: è da lì, e più precisamente da questo post, che ho saputo di questo libro di Sam Lipsyte, Chiedi e ti sarà tolto, la cui copertina veniva ampiamente promossa. Da lì, sono andata a vedere la trama: Milo Burke si occupa di fundraising per una mediocre università di New York frequentata da figli di papà aspiranti artisti, in seguito a una mancanza viene licenziato in tronco, ma gli viene offerta la possibilità di riavere il suo posto se riuscirà a ottenere un ingente finanziamento per l’università da un facoltoso uomo d’affari, che, si scopre, anni fa era suo amico e che, però, vuole da lui qualcosa in cambio… Veniva promessa “una tragicomica sequenza di guai” e mi aspettavo di leggere, in un’ambientazione insolita, una graffiante satira sul mondo universitario americano.

Ecco invece più o meno il contenuto del libro dopo giorni di penosa e snervante lettura, trascinandosi capitolo dopo capitolo (e imponendosi un ritmo forzato negli ultimi giorni perché davvero non ne potevo più di vedermelo sulla scrivania):

bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla sesso sesso sesso bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla battuta battuta bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla sesso scopate bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla frustrazioni varie del protagonista bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla sesso battuta sul sesso sesso battuta bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla frustrazioni del protagonista bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla odio e sarcasmi vari del protagonista verso se stesso e società bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla sesso bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla disillusione del protagonista bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla sesso bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla flussi di coscienza pieni di livore del protagonista bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla bla fine

Ora inorridirete tutti, ma è esattamente così che immagino i romanzi di Philip Roth, scrittore verso cui (sicuramente a torto, per carità) ho un pregiudizio negativo fortissimo: discorsi compiaciuti, elaborati e tortuosi, sarcasmo a manciate, nevrosi varie del protagonista, toni apocalittici sul destino dell’uomo (americano) del XXI secolo, scopate e/o discorsi su scopate passate o immaginate. La trama si poteva risolvere in 100 paginette, ma invece ne occupa quasi 400. Il libro in effetti serve da contenitore per i vari aforismi cinici/sarcasticamente profondi dell’autore, ce li ha voluti mettere tutti, quelli che gli erano venuti in mente, e quindi qua e là dobbiamo sorbirci scenette create ad hoc che non c’entrano nulla e allungano solo la minestra (ed ecco spiegate le 400 pagine). Secondo The New York Review of Books, quindi non l’ultimo arrivato, suppongo, “Lipsyte è di una comicità scabrosa, incontenibile, da farsela addosso per le risate”. Ma per piacere. Pessimo. Ho visto che altri su Internet lo hanno stroncato in modo più approfondito e convincente di me: leggete loro, io non voglio più perderci tempo sopra.

Sam Lipsyte, Chiedi e ti sarà tolto (trad. Anna Mioni), voto = 1/5
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Rex tremendae maiestatis

Se avete intenzione di leggere il romanzo, vi avverto che farò qualche riferimento alla trama e al finale: proseguite a vostro rischio.

Sono arrabbiata, molto arrabbiata.

Questa era l’ultima avventura dell’inquisitore Nicolas Eymerich, personaggio modellato dallo scrittore Valerio Evangelisti sulla base di una figura storica realmente esistita, ma profondamente trasformata e messa al centro di un complesso universo giocato su molteplici piani temporali comunicanti fra loro in modo misterioso e inquietante. Le avventure dell’inquisitore, ambientate nel XIV secolo, impegnato a contrastare sette eretiche e strani fenomeni sovrannaturali, avevano corrispondenze e ripercussioni sugli eventi che si svolgevano in un recente passato, nel presente, in un futuro prossimo, teatro di una guerra mondiale spaventosa e disumana, e in un lontano futuro post-apocalittico. Gran parte dei romanzi, dieci in tutto con quest’ultimo, Rex tremendae maiestatis, risale agli anni ’90, ma io l’ho scoperti nel febbraio 2009, tramite un commento su questo blog (grazie, Franz Joseph!), e mi sono iscritta al partito dei cultori di questa originale saga. Allo stesso tempo, però, se si rileggono le mie passate recensioni, avevo notato un progressivo declino nella qualità dei romanzi: gli ultimi due prima dell’epilogo, Mater terribilis e La luce di Orione, erano per me i più scadenti. Per questo aspettavo con trepidazione, ma anche con inquietudine, questo Rex tremendae maiestatis, che le voci su Internet davano come la puntata finale dell’intero ciclo: poteva essere un ritorno agli antichi fasti, o una cocente delusione, come tante delle cose troppo ansiosamente attese.

E ora, appunto, è la mia profonda delusione che mi appresto a motivare.

Non si può, non si può rovinare tutto così. Iniziamo, e già dalle prime pagine l’impressione è sgradevole: tutti gli atti e gli atteggiamenti di Eymerich hanno perso la sottigliezza dei tempi belli e ora sono estremizzati fino alla caricatura. Niente da dire sui capitoli ambientati nel futuro, ma, tendenza già evidenziata negli episodi precedenti, tendono a essere sempre più marginali rispetto a quelli medievali, nei primi romanzi c’era maggiore equilibrio. L’unico elemento positivo che rilevo è che per fortuna, almeno stavolta, non avremo a lungo fra i piedi quell’idiota di frate Bagueny. Andiamo avanti.

Balza agli occhi la povertà dello stile di scrittura dell’autore: d’accordo, è anche inevitabile che dopo aver letto un romanzo vicino alla perfezione come Il petalo cremisi e il bianco, dove non c’era una frase scritta a tirar via, dove ogni evento, ogni minima descrizione erano cesellati minuziosamente, i gesti e le reazioni dei personaggi erano sempre al loro posto e assolutamente credibili e verosimili, ora qualunque altra cosa suoni pasticciata, affrettata, sciatta. Da questo punto di vista, Faber mi ha abituata troppo bene, temo. Tuttavia, si può fare meglio di così: praticamente tutto il romanzo è una successione di scenette troppo brevi e serrate, quasi “staccate” e slegate fra loro, che procedono a un ritmo troppo rapido e convulso, e soprattutto scarsamente verosimili. Lo schema in genere è: Eymerich e gli altri personaggi sono testimoni di un evento apparentemente inspiegabile, spesso orripilante, reazione di stupore e spavento, espressa sempre con poche, identiche parole, poi Eymerich si allontana di pochi passi, si imbatte in un altro personaggio, e parte tutto un altro discorso, è come se l’episodio immediatamente precedente, fosse anche stato il più sconvolgente possibile, fosse stato completamente accantonato, non avesse lasciato alcuno strascico o conseguenza. Manca sempre un raccordo o una pausa di riflessione, e a me l’effetto che ciò, ripetuto per 500 pagine, ha suscitato è stato l’opposto della tensione e del tenermi incollata al libro, bensì stanchezza, saturazione, confusione, alla fine fretta e indifferenza, che ha portato in alcuni punti a una lettura distratta e fin troppo rapida.

La scrittura piatta e sciatta, in realtà, diciamolo, c’è sempre stata: è un difetto d’altra parte che emerge con ancora maggior evidenza quando non c’è Eymerich a reggere la baracca, in un romanzo a sé stante, non facente parte del ciclo dell’inquisitore, come Tortuga. Negli altri episodi della saga, tuttavia, si era più disposti a passarvi sopra, per il fascino del protagonista, per la novità e l’originalità degli elaborati intrecci, mai scontati; i romanzi migliori avevano quindi il merito di appassionare ugualmente: Nicolas Eymerich, inquisitore, il primo, perché Nicolas era agli esordi, e sia lui sia noi dovevamo abituarci a questo universo così ricco di corrispondenze e implicazioni sotterranee, da cui il lettore usciva piacevolmente frastornato, Cherudek (il migliore, secondo me) per la sua unica e riuscitissima commistione di fantascienza, romanzo d’avventura e horror puro e i suoi numerosi piani temporali, e quel bellissimo viaggio in coppia di Eymerich e padre Corona attraverso la Francia devastata dalla guerra dei cent’anni che da solo vale il libro, Il castello di Eymerich perché la marcia in più era data dalla fortissima ed emozionante tensione erotica che traspariva dalle scene con Eymerich e Myriam…

Qui, invece, come negli altri episodi più recenti e deboli, il gioco mostra un po’ la corda: Nicolas viene inviato da qualche parte, stavolta in Sicilia, in compagnia di personaggi disparati di cui in genere uno, o più di uno a turno, è scelto come una specie di “confidente” privilegiato per le spiegazioni a beneficio del lettore, e succedono un bel po’ di fatti strani, in cui ben presto il nostro inquisitore riesce bene o male a raccapezzarsi, ma l’Autore, che normalmente ci informa di ogni suo pensiero e stato d’animo, sulle sue teorie investigative improvvisamente diventa fastidiosamente, e poco coerentemente, reticente fino alla fine (direte: per forza! Altrimenti che gusto c’è? Ma io contesto il fatto che il punto di vista del narratore non sia del tutto onesto).

La narrazione è punteggiata di dettagli poco credibili (Eymerich che non sa nulla della IV Egloga di Virgilio?) o incoerenti e palesemente forzati (Eymerich tempesta di domande questo o quel personaggio su un certo argomento, ma subito dopo ci viene detto che della tal cosa “non gli interessava nulla”: e allora perché fa domande? Per fare due chiacchiere? Eymerich? Ma è chiaro perché: l’Autore non ha escogitato nulla di meglio di quel banale botta e risposta per fornire a noi lettori quelle informazioni).

Tre secondo me erano le cose che in un ultimo episodio della saga non potevano mancare. Di queste, due erano un ultimo saluto all’amato personaggio di padre Corona e un chiarimento sulla sorte capitata al povero prof. Frullifer. Invece, il primo viene semplicemente ricordato di sfuggita due o tre volte, il secondo mai neanche nominato. Il terzo aspetto su cui ero molto curiosa, che speravo di vedere chiarito, e cioè il passato, gli anni di formazione di Eymerich, era invece presente, ma anch’esso è stato trattato in modo deludente. Puerili e “meccanicistici” i flashback sull’infanzia del protagonista, intrisi di uno psicologismo banale ed elementare (la mamma anaffettiva, la paura che si tramuta in aggressività), e soprattutto si interrompono sul più bello, dopo essersi persi in una serie di scenette poco interessanti che vorrebbero essere rivelatrici o altamente simboliche o “fondanti” (l’aggressione al servo, la rottura della bambola), anch’esse comunque sbrigate in poche, frettolose righe. E poi, dopo gli otto anni? L’ingresso nell’ordine domenicano? Gli anni di studio? E perché inserire quell’incontro fugace tra Eymerich bambino e Ramón de Tárrega, che diverrà il suo arcinemico, senza poi darne alcun seguito? Mah.

Ma tutto questo non è ancora il peggio, no. Il tragico è che nel libro c’è un errore che ha dell’incredibile. Gli eventi narrati ne Il castello di Eymerich risalgono al 1369, e qui siamo, come ripetuto in più punti, nel 1372: come si fa, quindi, come si fa a riferirsi a essi come a fatti avvenuti “tredici anni” prima?? E non è un dettaglio, perché quegli eventi del passato giocano un ruolo fondamentale in quest’ultima avventura: per dire, tutta la figura, centrale, come poi si scoprirà, di Nissin Ficira risulta, alla luce di ciò, totalmente assurda, la cronologia è sballata. Come è stata possibile una tale noncuranza, una svista simile? Quando bastava aprire la pagina di Wikipedia per rinfrescarsi la memoria ed evitare figuracce? Colpa gravissima, imperdonabile, ingiustificabile e assurda, che in pratica da sola, a prescindere dalle altre considerazioni fatte sopra, spiega in gran parte il mio voto pessimo su questo libro.

Poi sì, va beh, si legge fino in fondo per vedere come va a finire… una fine che, fra l’altro, qui è anche inaspettatamente frettolosa, poco coinvolgente, con un confronto ultimo col nemico n. 1 francamente deludente al massimo grado, e, tanto per cambiare, l’ennesima trombata (ormai c’ha un harem), espediente ormai usurato, il cui abuso, anzi, ha, secondo me, colpevolmente e insensatamente sminuito la bellezza, l’intensità, l’unicità e l’eccezionalità della passione con Myriam, uno dei momenti più alti della saga.

Si legge fino alla fine, dicevo, quanto meno, ma stavolta non basta, non basta affastellare quanti più mostri e orrori vari possibili per salvare questo libro. Quello che andava ricreato era un’atmosfera che si respirava nei primi romanzi e che da un pezzo non si riesce più ad avvertire. È così che si rovinano i miti: riducendoli a macchiette e allungando il brodo fino a che non sa più di niente. Ribadisco quanto già scritto in precedenza: vista l’insipienza degli ultimi episodi, davvero la saga dell’inquisitore sarebbe dovuta finire dopo Il castello di Eymerich.

Valerio Evangelisti, Rex tremendae maiestatis, voto = 1/5
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