Se avete intenzione di leggere il romanzo, vi avverto che farò qualche riferimento alla trama e al finale: proseguite a vostro rischio.
Sono arrabbiata, molto arrabbiata.
Questa era l’ultima avventura dell’inquisitore Nicolas Eymerich, personaggio modellato dallo scrittore Valerio Evangelisti sulla base di una figura storica realmente esistita, ma profondamente trasformata e messa al centro di un complesso universo giocato su molteplici piani temporali comunicanti fra loro in modo misterioso e inquietante. Le avventure dell’inquisitore, ambientate nel XIV secolo, impegnato a contrastare sette eretiche e strani fenomeni sovrannaturali, avevano corrispondenze e ripercussioni sugli eventi che si svolgevano in un recente passato, nel presente, in un futuro prossimo, teatro di una guerra mondiale spaventosa e disumana, e in un lontano futuro post-apocalittico. Gran parte dei romanzi, dieci in tutto con quest’ultimo, Rex tremendae maiestatis, risale agli anni ’90, ma io l’ho scoperti nel febbraio 2009, tramite un commento su questo blog (grazie, Franz Joseph!), e mi sono iscritta al partito dei cultori di questa originale saga. Allo stesso tempo, però, se si rileggono le mie passate recensioni, avevo notato un progressivo declino nella qualità dei romanzi: gli ultimi due prima dell’epilogo, Mater terribilis e La luce di Orione, erano per me i più scadenti. Per questo aspettavo con trepidazione, ma anche con inquietudine, questo Rex tremendae maiestatis, che le voci su Internet davano come la puntata finale dell’intero ciclo: poteva essere un ritorno agli antichi fasti, o una cocente delusione, come tante delle cose troppo ansiosamente attese.
E ora, appunto, è la mia profonda delusione che mi appresto a motivare.
Non si può, non si può rovinare tutto così. Iniziamo, e già dalle prime pagine l’impressione è sgradevole: tutti gli atti e gli atteggiamenti di Eymerich hanno perso la sottigliezza dei tempi belli e ora sono estremizzati fino alla caricatura. Niente da dire sui capitoli ambientati nel futuro, ma, tendenza già evidenziata negli episodi precedenti, tendono a essere sempre più marginali rispetto a quelli medievali, nei primi romanzi c’era maggiore equilibrio. L’unico elemento positivo che rilevo è che per fortuna, almeno stavolta, non avremo a lungo fra i piedi quell’idiota di frate Bagueny. Andiamo avanti.
Balza agli occhi la povertà dello stile di scrittura dell’autore: d’accordo, è anche inevitabile che dopo aver letto un romanzo vicino alla perfezione come Il petalo cremisi e il bianco, dove non c’era una frase scritta a tirar via, dove ogni evento, ogni minima descrizione erano cesellati minuziosamente, i gesti e le reazioni dei personaggi erano sempre al loro posto e assolutamente credibili e verosimili, ora qualunque altra cosa suoni pasticciata, affrettata, sciatta. Da questo punto di vista, Faber mi ha abituata troppo bene, temo. Tuttavia, si può fare meglio di così: praticamente tutto il romanzo è una successione di scenette troppo brevi e serrate, quasi “staccate” e slegate fra loro, che procedono a un ritmo troppo rapido e convulso, e soprattutto scarsamente verosimili. Lo schema in genere è: Eymerich e gli altri personaggi sono testimoni di un evento apparentemente inspiegabile, spesso orripilante, reazione di stupore e spavento, espressa sempre con poche, identiche parole, poi Eymerich si allontana di pochi passi, si imbatte in un altro personaggio, e parte tutto un altro discorso, è come se l’episodio immediatamente precedente, fosse anche stato il più sconvolgente possibile, fosse stato completamente accantonato, non avesse lasciato alcuno strascico o conseguenza. Manca sempre un raccordo o una pausa di riflessione, e a me l’effetto che ciò, ripetuto per 500 pagine, ha suscitato è stato l’opposto della tensione e del tenermi incollata al libro, bensì stanchezza, saturazione, confusione, alla fine fretta e indifferenza, che ha portato in alcuni punti a una lettura distratta e fin troppo rapida.
La scrittura piatta e sciatta, in realtà, diciamolo, c’è sempre stata: è un difetto d’altra parte che emerge con ancora maggior evidenza quando non c’è Eymerich a reggere la baracca, in un romanzo a sé stante, non facente parte del ciclo dell’inquisitore, come Tortuga. Negli altri episodi della saga, tuttavia, si era più disposti a passarvi sopra, per il fascino del protagonista, per la novità e l’originalità degli elaborati intrecci, mai scontati; i romanzi migliori avevano quindi il merito di appassionare ugualmente: Nicolas Eymerich, inquisitore, il primo, perché Nicolas era agli esordi, e sia lui sia noi dovevamo abituarci a questo universo così ricco di corrispondenze e implicazioni sotterranee, da cui il lettore usciva piacevolmente frastornato, Cherudek (il migliore, secondo me) per la sua unica e riuscitissima commistione di fantascienza, romanzo d’avventura e horror puro e i suoi numerosi piani temporali, e quel bellissimo viaggio in coppia di Eymerich e padre Corona attraverso la Francia devastata dalla guerra dei cent’anni che da solo vale il libro, Il castello di Eymerich perché la marcia in più era data dalla fortissima ed emozionante tensione erotica che traspariva dalle scene con Eymerich e Myriam…
Qui, invece, come negli altri episodi più recenti e deboli, il gioco mostra un po’ la corda: Nicolas viene inviato da qualche parte, stavolta in Sicilia, in compagnia di personaggi disparati di cui in genere uno, o più di uno a turno, è scelto come una specie di “confidente” privilegiato per le spiegazioni a beneficio del lettore, e succedono un bel po’ di fatti strani, in cui ben presto il nostro inquisitore riesce bene o male a raccapezzarsi, ma l’Autore, che normalmente ci informa di ogni suo pensiero e stato d’animo, sulle sue teorie investigative improvvisamente diventa fastidiosamente, e poco coerentemente, reticente fino alla fine (direte: per forza! Altrimenti che gusto c’è? Ma io contesto il fatto che il punto di vista del narratore non sia del tutto onesto).
La narrazione è punteggiata di dettagli poco credibili (Eymerich che non sa nulla della IV Egloga di Virgilio?) o incoerenti e palesemente forzati (Eymerich tempesta di domande questo o quel personaggio su un certo argomento, ma subito dopo ci viene detto che della tal cosa “non gli interessava nulla”: e allora perché fa domande? Per fare due chiacchiere? Eymerich? Ma è chiaro perché: l’Autore non ha escogitato nulla di meglio di quel banale botta e risposta per fornire a noi lettori quelle informazioni).
Tre secondo me erano le cose che in un ultimo episodio della saga non potevano mancare. Di queste, due erano un ultimo saluto all’amato personaggio di padre Corona e un chiarimento sulla sorte capitata al povero prof. Frullifer. Invece, il primo viene semplicemente ricordato di sfuggita due o tre volte, il secondo mai neanche nominato. Il terzo aspetto su cui ero molto curiosa, che speravo di vedere chiarito, e cioè il passato, gli anni di formazione di Eymerich, era invece presente, ma anch’esso è stato trattato in modo deludente. Puerili e “meccanicistici” i flashback sull’infanzia del protagonista, intrisi di uno psicologismo banale ed elementare (la mamma anaffettiva, la paura che si tramuta in aggressività), e soprattutto si interrompono sul più bello, dopo essersi persi in una serie di scenette poco interessanti che vorrebbero essere rivelatrici o altamente simboliche o “fondanti” (l’aggressione al servo, la rottura della bambola), anch’esse comunque sbrigate in poche, frettolose righe. E poi, dopo gli otto anni? L’ingresso nell’ordine domenicano? Gli anni di studio? E perché inserire quell’incontro fugace tra Eymerich bambino e Ramón de Tárrega, che diverrà il suo arcinemico, senza poi darne alcun seguito? Mah.
Ma tutto questo non è ancora il peggio, no. Il tragico è che nel libro c’è un errore che ha dell’incredibile. Gli eventi narrati ne Il castello di Eymerich risalgono al 1369, e qui siamo, come ripetuto in più punti, nel 1372: come si fa, quindi, come si fa a riferirsi a essi come a fatti avvenuti “tredici anni” prima?? E non è un dettaglio, perché quegli eventi del passato giocano un ruolo fondamentale in quest’ultima avventura: per dire, tutta la figura, centrale, come poi si scoprirà, di Nissin Ficira risulta, alla luce di ciò, totalmente assurda, la cronologia è sballata. Come è stata possibile una tale noncuranza, una svista simile? Quando bastava aprire la pagina di Wikipedia per rinfrescarsi la memoria ed evitare figuracce? Colpa gravissima, imperdonabile, ingiustificabile e assurda, che in pratica da sola, a prescindere dalle altre considerazioni fatte sopra, spiega in gran parte il mio voto pessimo su questo libro.
Poi sì, va beh, si legge fino in fondo per vedere come va a finire… una fine che, fra l’altro, qui è anche inaspettatamente frettolosa, poco coinvolgente, con un confronto ultimo col nemico n. 1 francamente deludente al massimo grado, e, tanto per cambiare, l’ennesima trombata (ormai c’ha un harem), espediente ormai usurato, il cui abuso, anzi, ha, secondo me, colpevolmente e insensatamente sminuito la bellezza, l’intensità, l’unicità e l’eccezionalità della passione con Myriam, uno dei momenti più alti della saga.
Si legge fino alla fine, dicevo, quanto meno, ma stavolta non basta, non basta affastellare quanti più mostri e orrori vari possibili per salvare questo libro. Quello che andava ricreato era un’atmosfera che si respirava nei primi romanzi e che da un pezzo non si riesce più ad avvertire. È così che si rovinano i miti: riducendoli a macchiette e allungando il brodo fino a che non sa più di niente. Ribadisco quanto già scritto in precedenza: vista l’insipienza degli ultimi episodi, davvero la saga dell’inquisitore sarebbe dovuta finire dopo Il castello di Eymerich.
Valerio Evangelisti, Rex tremendae maiestatis, voto = 1/5
Per acquistarlo su amazon.it, ibs.it o libreriauniversitaria.it