E allora eccoci qui a scrivere anche la “minirecensione” de Il monastero dei lunghi coltelli, secondo capitolo (dopo La bottega degli errori) della saga del barbiere Barney Thomson, killer suo malgrado e ora in fuga dalla polizia che lo bracca per degli omicidi che non ha commesso. Si tratta del libro che non era piaciuto moltissimo al critico del Corriere della Sera.
Bisogna dire che se il primo me lo aspettavo diverso, anche il secondo un po’ mi ha sorpreso, e questo va sicuramente a merito dell’autore. Forse però Il monastero (per inciso, anche qui in originale il titolo era molto diverso: The cutting edge of Barney Thomson) si colloca leggermente al di sotto de La bottega, probabilmente perché allora c’era la curiosità di scoprire questo nuovo, divertente personaggio. Nel primo Barney era più al centro della scena, qui molto più spazio è dato ai due poliziotti che lo cercano, che se all’inizio, beh, sembrano interessanti e simpatici, dopo un po’ la loro storia stanca e si vorrebbe più Barney! E soprattutto gli altri personaggi del suo mondo, la moglie, i colleghi… E invece compare di rado, e in un contesto totalmente diverso da quello che lo vedeva protagonista nel primo libro, a volte sembra un po’ “avulso” dal resto della storia.
La trama, comunque, è ben congegnata, a tratti geniale. È una specie de Il nome della rosa allucinato, molto molto più pulp. Non è difficilissimo, a un certo punto, scoprire l’assassino, ma è il movente l’importante, ed è assolutamente un capolavoro, da morire… dal ridere. A un certo punto, verso la fine, l’autore è un po’ “scorretto” con il lettore (nel senso che tira fuori dal cilindro un espediente che gli fa comodo e che il lettore deve prendere per buono, così), ma d’altra parte questo non è un giallo alla Agatha Christie in cui tutti gli indizi devono essere a posto, qua si cerca il grottesco, l’ironia, l’umorismo nero e tagliente. E i dialoghi a volte sono squisitamente surreali!
Non credo che l’autore abbia una grandissima opinione della religione cattolica, visto che razza di monaci abitano in questo monastero, ma tant’è. Alla fine forse avrei “preferito” una maggiore cattiveria nel finale, ma forse sono io il mostro assetato di sangue e incontentabile. Mi aspettavo che il secondo libro si concludesse con una sorta di “ritorno alla normalità”: e invece mi sa che nel terzo (non ancora tradotto in italiano) si andrà avanti sul tema “Barney in fuga”, e spero che non sarà una riproposizione di questo in un diverso scenario.
Douglas Lindsay, Il monastero dei lunghi coltelli (trad. Marco Scaldini), voto = 3/5
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