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La Conquista del Messico

Questo è un argomento su cui non mi stancherò mai di leggere: riunisce insieme così tanti aspetti affascinanti (viaggi, avventura, ignoto, incontro con l’altro, gusto del romanzesco, passione, caso, tragedia) da essere irresistibile. La mia collezione di libri è ancora piccola, ma sta crescendo.

Una delle aggiunte più “preziose” è questo La Conquista del Messico dello storico americano William H. Prescott (1796-1859), che forse compariva nella bibliografia dei saggi di Levy o di Miralles sullo stesso argomento. Se dovessi recensirlo in poche parole, direi che è tutto ciò che Cortés di Miralles non era: tanto quel libro era sì dottissimo ma arido, pedantesco e faticosissimo da leggere, quanto questo è una goduria per il lettore. Prima di acquistare o mettere in lista un libro, controllo sempre qualche recensione su Goodreads… In questo caso, per un saggio di quasi 1000 pagine scritto nel 1843, sono rimasta stupita di fronte al livello di entusiasmo dei lettori (per citare un po’ qua e là: “Insanely good. The most impossible-to-put-down history book I’ve ever held in my hot little hands. And it’s over 100 years old.”, “This is the absolute best! What an exciting story.”, “This book is astounding!”, “Shakespearean. Biblical.”, “This was written in *sit yourself down* eighteenfortythree and it reads brilliantly.”). Diciamo quindi che i pareri erano molto incoraggianti… e, ho potuto verificare, assolutamente veritieri. Davvero, se volete far appassionare qualcuno alla lettura di saggi storici, dategli questo libro: 881 pagine che scorrono in un lampo (magari ditegli di saltare l’introduzione con la biografia dell’autore: è interessante pure quella, eh, ma meglio non esagerare, come prima volta!).

Chiaramente, non è in un saggio del 1843 che si cercano le ultime novità in fatto di interpretazione storiografica dell’avvenimento. Non aspettiamoci da Prescott una lettura “terzomondista” o “antimperialista” della conquista del Messico. Il suo presupposto di partenza è che la storia sia un continuo progresso, e che le civiltà più evolute soppiantino “naturalmente” quelle rimaste a un grado inferiore di civiltà. Oltre tutto la civiltà azteca è stata, secondo lui, “giustamente” sconfitta e cancellata dalla storia per l’abominio imperdonabile dei sacrifici umani… Tuttavia egli non è mai del tutto indifferente di fronte alle conseguenze devastanti della Conquista di lì a venire per la popolazione americana, come non è privo di ammirazione verso le vette della civiltà azteca e il coraggio e l’irriducibilità degli ultimi resistenti (ad esempio l’ultimo imperatore Cuauhtémoc) e non nasconde, a parte l’evidente fascino per il protagonista della sua epopea, Cortés, gli eccessi più violenti dei conquistadores (d’altra parte neanche la cattolica Spagna era per lui, anglosassone e protestante, la vetta della civiltà, sebbene sia il paese che, da storico, più l’interessò), mentre stigmatizza con ironia gli eccessi trionfalistici e nazionalistici, o ultra-apologetici e agiografici, degli storici, soprattutto spagnoli, che l’hanno preceduto (accanto alle pagine piene d’azione e, come si dice, “appassionanti come un romanzo”, non mancano approfondimenti sulle fonti consultate, criticamente vagliate, e schede biografiche degli autori).

Insomma, bellissimo e, inutile dirlo, subito messi in lista anche History of the Conquest of Peru, dello stesso autore, e, perché no?, anche il suo History of the Reign of Philip the Second, King of Spain (si trovano tutti gratuitamente in lingua originale, in ebook).

William H. Prescott, La Conquista del Messico (trad. Piero Jahier e Maria Vittoria Malvano), voto = 4/5

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Conquistador

Questo, almeno per ora, sarà l’ultimo libro della serie incentrata sulla conquista del Messico (cominciata con La voce dell’acqua, proseguita poi con Goddess of GrassCortés), perché al momento ne ho abbastanza. Devo dire però che, anche senza volerlo, ho scelto libri con taglio fra loro diverso, non mi sono capitati quattro doppioni (poi il gradimento è stato variabile, ma è un altro discorso).

Sarei tentata di sbrigarmela con poche parole anche con questa recensione, non tanto perché Conquistador, di Buddy Levy, non meriti considerazione, quanto perché dovrei ripetere un po’ sempre le stesse cose. Visto sul sito della casa editrice Bruno Mondadori, a conti fatti questo mi è sembrato il “vero” libro per il grande pubblico che Cortés, in modo abbastanza improbabile, dichiarava di voler essere; infatti, devo dire che è stato soprattutto il nome della collana di cui fa parte, “La storia narrata”, a convincermi all’acquisto: volevo una lettura appassionante, che si concedesse anche un po’ il gusto della narrazione e dell’avventura, certo senza comunque sacrificare troppo al rigore scientifico.

E il testo va proprio in questa direzione: è (quasi) tutto azione e poca politica, non più gli interminabili resoconti sulle manovre e i maneggi di Cortés che si leggevano in Miralles, e soprattutto molte meno digressioni per spiegare antefatti e retroscena, o presentare innumerevoli figure di contorno, o esaminare criticamente i passaggi controversi delle fonti. Qui, con un taglio quasi “cinematografico”, si entra subito nel vivo con Cortés a bordo della nave che da Cuba lo sta portando nello Yucatán, e non si lascia mai il palcoscenico degli avvenimenti principali.

A differenza di quanto faceva Miralles, la disamina delle fonti è molto più sbrigativa, l’autore non riporta nel testo tutte le versioni degli avvenimenti (solo in nota, talvolta) e in genere ne accetta una senza però spiegare sempre bene perché. C’è sempre un po’ il rischio, la tentazione, di cadere nel “pittoresco” o nel “romantico” (accentuato nel sottotitolo originale), ma d’altra parte non posso criticare l’eccessiva aridità dei precedenti volumi e poi storcere il naso se qui invece i toni sono più carichi di pathos, sarebbe un controsenso.

Insomma, in breve, non è un saggio memorabile e imprescindibile su Cortés e Montezuma, allo specialista magari sembrerà in qualche punto impreciso o con semplificazioni eccessive, comunque per me è stata una lettura tutto sommato gradevole e senz’altro molto più scorrevole e avvincente di quelle sullo stesso argomento che l’hanno preceduta.

Buddy Levy, Conquistador: Cortés, Montezuma e la caduta dell’impero azteco (trad. Luna Orlando), voto = 3/5
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Cortés

Era arrivato il momento di affrontare questa corposa biografia di Cortés, continuando un filone cominciato ormai qualche settimana fa sul tema “conquista del Messico”: ci avevo già provato qualche tempo fa, ma confesso che avevo resistito solo poche pagine. Stavolta forse la “spinta” dei due libri precedenti, La voce dell’acqua e Goddess of Grass, grazie ai quali se non altro avevo già fatto un “ripasso” dell’argomento, è stata utile.

Questo libro è un caso in cui all’interesse per il contenuto si somma la bellissima copertina che ti strega, creando una combinazione irresistibile: infatti è stato in libreria che il fascinoso volto di Cortés ha attirato il mio sguardo; la prima edizione del volume incuteva però un certo “timore”, visto che era un mattone con copertina rigida di più di 500 pagine e costava 36 euro… L’edizione economica nella collana Oscar storia era decisamente più abbordabile, l’inconveniente però è probabilmente le ridotte dimensioni della pagina fanno sì che il testo sia scritto piccolo piccolo (quando ti abitui a leggere i caratteri giganti del Kindle, poi sulle prime è dura pensare di non poterli più ingrandire!).

Penso che uno dei motivi per cui mi interessa tanto l’epoca dei viaggi e delle conquiste sia che si trattò, per entrambi i fronti, di un incontro tanto impensabile e imprevedibile con l’ignoto assoluto, incomprensibile. Queste persone che scelsero di mettersi in viaggio verso luoghi totalmente estranei e sconosciuti, spesso con la quasi certezza che non avrebbero più potuto tornare indietro… ormai, nel mondo attuale, non riesco nemmeno più a trovare un termine di paragone adatto. Forse la loro esperienza, la molla del loro agire, le loro paure e il loro stupore sono assimilabili, ormai, solo a quello che oggi si trovano ad affrontare gli astronauti, gli unici, per quanto ne so, che letteralmente non sanno e non possono immaginare cosa li attenderà all’arrivo.

Qui però non c’era molto su questo aspetto dell’epopea dei viaggi e delle esplorazioni, l’attenzione dell’autore era concentrata su battaglie, trattative, contratti (visto che non ho ancora abbastanza libri da leggere, e se ritornassi lì dove avevo giusto trovato questo, che avevo scartato, anche perché tutto sottolineato?).

Nella Premessa l’autore dichiara di rivolgersi principalmente a un pubblico di non specialisti, ma francamente il tono di questo libro mi sembra tutt’altro che divulgativo: sì, vi sono spiegazioni che normalmente non sono necessarie agli addetti ai lavori, ma anche una miriade di nomi di persone e di luoghi e di avvenimenti, e collazioni fra le diverse fonti, e mini-biografie di questo e quello, che alla lunga danno alla testa. La conquista e i suoi protagonisti, come ci informa Miralles, furono, fin dall’inizio, raccontata in mille modi diversi, sottoposta a manipolazioni, fraintendimenti, abbellimenti o omissioni, perciò la caratteristica principale del libro è mettere fianco a fianco le varie versioni dei vari cronisti, per cogliere in ognuna di esse punti di forza, contraddizioni, errori, elementi aggiuntivi. Questo metodo assai scrupoloso fa sì però che spesso un singolo episodio sia narrato in più modi diversi, commentato, criticato, eccetera, rendendo la lettura assai pesante e lenta.

Nonostante la parola conquistador possa evocare alla mente uomini bellicosi, irruenti e assetati di sangue e oro, il ritratto di Cortés che emerge da questo libro è molto diverso: calmo, freddo, controllato, paziente. Tuttavia, più che Cortés, emergono forse con ancora più forza e in modo molto più tragico le personalità molto diverse di Montezuma (uso la grafia più nota, anche se più antiquata e forse meno corretta) e Cuauhtémoc, l’ultimo sovrano mexica “indipendente”: il primo spogliato dall’aura suggestiva ma anche un po’ caricaturale del sovrano superstizioso, terrorizzato dalla profezia che annuncia la fine del suo regno, paralizzato dall’indecisione, e descritto invece come prudente, diplomatico, realista, impegnato (vanamente) nel regolare la transizione dei poteri nel modo meno traumatico e cruento per il suo popolo, il secondo quasi eroe tragico, votato fino all’ultimo a un’impossibile e “assurda” resistenza.

A differenza dei due libri precedenti, questa biografia non si ferma alla conquista di Tenochtitlán, ma si occupa anche degli anni successivi della vita di Cortés… non esattamente allegri o altrettanto avvincenti per il lettore, visto che furono avvelenati da innumerevoli liti e contrasti e cause, di cui l’autore, al solito, ci informa nel dettaglio (e mica gliene faccio una colpa!)… senza che, comunque, la voglia di Cortés di viaggiare ed esplorare si spenga del tutto, anche se i suoi progetti divennero sempre più velleitari o fallimentari, e sempre meno gli uomini disposti a seguirlo. Paradossalmente, però, è in questa fase meno nota e meno avventurosa che emerge un ritratto di Cortés, invecchiato, solo, amareggiato, stanco, più coinvolgente e partecipato.

Un libro insomma alquanto dotto e denso di informazioni, ma pesantissimo: con meno parole ha detto meglio di me un utente aNobii (che pure dà un giudizio positivo): “Ci sono libri storici, soprattutto quando si parla di biografie, che si leggono come romanzi. Scorrevoli, accattivanti, ti fanno immediatamente immergere nella storia e nelle vicende dei personaggi. Bene, questo NON è uno di quei libri”.

Juan Miralles, Cortés. L’inventore del Messico (trad. Alessandra Benabbi e Cristiana Spitali), voto = 2,5/5
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Goddess of Grass

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Una coincidenza fortuita e un salto nel buio, questo libro. Proprio nei giorni in cui acquistavo e leggevo La voce dell’acqua, romanzo storico su La Malinche, rimanendone piuttosto delusa, qualcuno (che poi ho scoperto essere l’autore), su un gruppo di Goodreads, apriva la discussione “Malinche – Cortez’s secret weapon“, in cui veniva citato appunto Goddess of Grass.

Ho cominciato a interessarmi a quest’opera perché, dalla presentazione dell’autore, sembrava l’opposto di quanto non stavo apprezzando in La voce dell’acqua: sembrava avere una visione e un approccio più “politico” e “pragmatico” rispetto agli svolazzi della Esquivel. Il “problema” era che questo libro non aveva grandi “referenze”: l’autore ha creato un sito dedicato all’argomento, ma di Goddess of Grass non ho trovato neanche una recensione in tutto il web (cosa che non suonava granché bene), non era chiaro neppure se si trattava di un saggio o di un romanzo storico. Alla fine comunque la curiosità ha avuto il sopravvento, ed ecco quindi il mio primo esperimento col self-publishing, su cui da tempo nutro un po’ di diffidenza.

Diffidenza che questo libro non ha contribuito a dissipare, diciamolo subito, perché, da un punto di vista “tecnico”, il file lascia a desiderare: ai capitoli non corrispondono posizioni, così che la scrittura è un “flusso” continuo, e questo mi ha fatto capire quanto sia comodo, invece, avere le “tacche” in fondo alla pagina che ti segnalano se stai arrivando alla fine del capitolo. Vi è qualche errore di stampa e i segni di punteggiatura a volte sono sballati (ad esempio spesso, e soprattutto all’inizio, il discorso diretto si apre con “ ma per qualche motivo si chiude con ||), alcune parole sono attaccate.
Non è che sia illeggibile, eh (ripeto che sto ancora parlando esclusivamente della cura dell’aspetto formale e della confezione), ma si vede chiaramente che è un prodotto non fatto da professionisti, amatoriale, messo insieme in modo sciatto: una rilettura un po’ più attenta non guastava. La versione per Kindle costava 2,68€: troppo poco, per avere il diritto di lamentarsi? Non credo (e se la versione elettronica è uguale a quella cartacea, sarei stata ancora più arrabbiata, perché costa 11 euro).
Fin qui le pecche “tecniche”, ma anche lo stile dell’autore non è esente da critiche: vi sono alcuni brani (come ad es. le descrizioni), che si ripetono in più punti quasi parola per parola, il discorso indiretto che si trasforma all’improvviso in diretto, e in generale un linguaggio piattissimo (la stessa critica che muovevo alla Esquivel quando dicevo che, in alcuni punti, si leggevano “inserti saggistici malamente mascherati da romanzo”: ebbene, qui tutto il libro è così, tanto che alla fine si tratta di un “ibrido” non ben classificabile fra saggio e romanzo storico). Persino i titoli dei capitoli si susseguono sempre uguali in modo meccanico: ciascuno di essi segue uno dei tre protagonisti del dramma, “The Emperor”, cioè Montezuma, “The Conqueror”, Cortés, e “The Heroine”, Malinalli; e tutto il libro quindi è un’interminabile successione di

The Emperor
The Conqueror
The Heroine
The Conqueror
The Emperor
The Heroine

e così via in modo sempre uguale, l’unica “variazione” è data dalle combinazioni degli stessi, tipo:

The Conqueror and the Heroine
The Emperor and the Heroine
The Emperor, the Conqueror and the Heroine

Sembra una stupidaggine, eppure alla lunga era assolutamente snervante. Diciamo che dopo quest’esperienza di lettura apprezzo enormemente di più il lavoro silenzioso degli editor.

Veniamo ora all’analisi del contenuto del libro; chiaramente nel mio giudizio molto ha pesato il confronto col romanzo appena letto sullo stesso argomento, il già ricordato La voce dell’acqua di Laura Esquivel. Ebbene, alla fine della lettura, si poteva quasi parlare di rammarico: sì, perché Morawski le aveva pure, cose più interessanti da dire rispetto alla Esquivel, ma certo, alla luce di quanto ho detto finora, non aveva i mezzi per comunicarle nel modo giusto (detto in modo più conciso: la Esquivel scrive mille volte meglio).
La maggiore differenza fra i due testi è sicuramente che, mentre nel libro della Esquivel Malinalli appare come una figura tutto sommato confusa, impaurita, affranta per la realizzazione di essersi tremendamente sbagliata nell’identificare inizialmente Cortés nel dio Quetzalcóatl, quasi succube di un legame che la tiene avvinta a lui per ragioni che non sa spiegarsi, qui al contrario Malinalli fin da subito capisce più o meno con chi ha a che fare, è decisa e risoluta (anche per quanto riguarda le sue scelte sentimentali) e soprattutto agisce non come interprete passiva ma talvolta dando ai discorsi che deve tradurre il senso che vuole (o che lei per prima crede di capire), sembrerebbe quasi avere in mente un “progetto” preciso (la ragione per cui si schiera decisamente dalla parte degli Spagnoli sarebbe la sua avversione alla pratica dei sacrifici umani). È una visione che certamente è impossibile da verificare sulle fonti (che su Malinalli sono scarse e laconiche), ma è una lettura del personaggio (consentita dalla natura “romanzesca” del libro) affascinante, se non altro. Come dice l’autore (in uno dei post della discussione sopra citata), “My fascination comes in when I think about what she might have said at those meetings. After all at first Cortez and his men had no idea what she was saying on their behalf. She could easily have told the other tribes that Cortez was the god returned”: ho apprezzato quindi che il libro fosse impostato sul ruolo-chiave di Malinalli, su cosa poteva capire dei discorsi che doveva tradurre dallo spagnolo alla lingua nahuatl, su cosa voleva che si capisse di quei discorsi. Forse, però, l’autore finisce per spingere troppo in là questa interpretazione, tanto è vero che da un certo punto pare emergere una Malinalli che quasi sistematicamente “adatta” le parole di Cortés, anzi, sembrerebbe quasi che sia lei “l’eminenza grigia”, il Richelieu della situazione, mentre Cortés appare di un candore francamente incredibile, prono a qualsiasi suggerimento strategico della ragazza. Suonano quindi un po’ assolutorie e non del tutto convincenti le caratterizzazioni degli Aztechi come costantemente intenti a fare sacrifici umani, o di “san” Cortés.

Me l’aspettavo di più nel libro della Esquivel (ingannata dalla quarta di copertina totalmente campata per aria) e invece, paradossalmente, è qui che si legge una visione abbastanza “rosa” del rapporto fra Cortés e Malinalli (il racconto del “primo appuntamento” fa un po’ ridere).

Insomma, nelle mani di uno scrittore più bravo, questo libro avrebbe forse potuto essere migliore. Ora penso che, prima di avere una “crisi di rigetto”, mi butterò sulla biografia di Cortés di Juan Miralles, che, essendo un saggio, dovrebbe essere più equilibrata dei due romanzi o, quanto meno, più facilmente verificabile sulle fonti (l’ultima volta che ho provato ad iniziarla ho smesso dopo poche pagine perché mi annoiava, ma speriamo che ora vada meglio); se invece il prossimo post che scriverò sarà su un libro totalmente diverso, vorrà dire che per il momento ne ho avuto abbastanza di quest’argomento.

Ed Morawski, Goddess of Grass, voto = 2/5
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La voce dell’acqua

Dico la verità, non mi aspettavo grandi cose da questo romanzo. Non ce l’ho con l’autrice, che non conoscevo proprio: è la letteratura sudamericana che non mi ha mai convinto, la trovo distante dai miei gusti. Oltre tutto, leggendo la quarta di copertina, temevo che la storia di Malinche e Cortés venisse ridotta a romanzetto rosa. Ma l’argomento mi interessava (vedi anche la recensione a Le parole di Malinche), e non è facile trovare opere di fantasia su questa donna, proprio perché tanto poco si sa su colei che fu prima schiava, poi interprete di Cortés, pedina fondamentale nel successo dell’impresa della Conquista del Messico e della distruzione dell’impero azteca.

Quindi, proprio per desiderio di leggere quanto più possibile sull’argomento, e con un approccio diverso da quello di un saggio, ho messo a tacere i dubbi e l’ho comprato: in fondo, scontato, costava pure poco. Ma tanto lo sapevo che sarebbe finita così.

Il titolo poteva subito mettere in guardia verso un certo misticismo New Age, ma quello in realtà non era dovuto all’autrice (in originale il romanzo si intitola semplicemente Malinche; è tipico della casa editrice Garzanti stravolgere, spesso senza alcun motivo apparente, i titoli in sede di traduzione, ma forse stavolta il timore che il nome dicesse ben poco al pubblico italiano era fondato). Come dicevo, ci sono naturalmente varie fonti per la storia della spedizione di Cortés, ma pochi dati certi su Malinche, che rimane una figura misteriosa (e proprio per questo ancor più affascinante), e certamente non abbiamo le sue “memorie”. Quindi ok, mi va benissimo se per narrare la sua storia ci metti anche una buona dose di fantasia, lo capisco: anzi, scelgo di leggere un romanzo proprio per avere una versione più libera, “emozionale”, degli eventi. Passi anche, allora, fino a un certo punto, la favola sulla “passione forte e carnale” fra Malinche e Cortés, la cui “sete di conquista” rischierebbe però di distruggere “il loro amore” (ma qui forse è stato chi ha scritto la quarta di copertina che si è lasciato un po’ andare): ripeto, è un romanzo, lo leggo per divertirmi, non prendo per oro colato tutto quel che c’è scritto.

Però, però… la fuffa New Age non la digerisco: si comincia subito con la nonna buona e saggia della protagonista che fa dei pipponi solo parzialmente comprensibili su vento, acqua, fuoco, natura, cosmo ecc., sempre come se leggesse da un libro stampato. Ora, a qualcuno può anche piacere questo linguaggio così “alato”, quest’antica saggezza ancestrale… Non voglio sembrare irrispettosa. Magari sarebbero riusciti a “illuminare” anche me, se non avessero costituito i tre quarti abbondanti del libro: ma dopo un po’ stufano, le frasi mi si confondono davanti agli occhi, mi dicono tutto e niente. Il problema è che, dove non c’era la poesia della natura e del vento e dell’acqua, c’erano gli inserti saggistici malamente mascherati da romanzo. Quindi, o brani per me incomprensibili e alla lunga stancanti sull’armonia del cosmo e dentro di noi, o aridi bollettini di avvenimenti che potevo benissimo leggermi su un libro di storia. Zero battaglie, zero spedizioni, zero descrizioni, zero ricostruzioni, zero “romanzo storico”. Pochissimo sulla funzione di mediatrice culturale e linguistica di Malinche (perché così poco spazio ai dialoghi quando è proprio per la sua capacità di parlare e tradurre che è entrata nella storia?), pochissimo sull’impatto suo e degli indigeni con l’Altro (anche meno sulle reazioni degli spagnoli all’Altro: e non è che non ce ne fosse il modo, visto che, soprattutto all’inizio, il POV si alterna fra Malinche e Cortés), pochissimo anche su ‘sto benedetto rapporto con Cortés, e allora manco la soddisfazione di leggere un romanzo rosa come si deve, ci tocca!

Quanto meno, si evita l’errore di considerare gli indigeni come un blocco compatto e inerme spazzato via dalla furia dei conquistadores, mentre invece l’avanzata spagnola sfruttò le divisioni interne alle popolazioni locali e fu favorita dalle alleanze strette con questa o quella etnia che avevano interesse a far crollare l’odiato dominio azteco.

Il libro è illustrato da alcuni bei disegni che raffigurano scene del romanzo e che nello stile si ispirano ai codici aztechi, opera dell’artista Jordi Castells, nipote dell’autrice (mezzo voto in più grazie a lui).

Laura Esquivel, La voce dell’acqua (trad. Stefania Cherchi), voto = 2/5
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Isaac’s Storm

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Ho scoperto questo libro da questo blog post: presentava quelli che, per l’autrice, sono i migliori 10 saggi per chi è appassionato di romanzi, che sono insomma scorrevoli e piacevoli da leggere tanto quanto i romanzi. Dell’elenco faceva parte, oltre a In nome del cielo di Jon Krakauer, che avevo già letto (e che infatti è bellissimo), anche questo, sul devastante uragano che, l’8 settembre 1900, rase al suolo la ricca e vivace città di Galveston, Texas. In effetti lo stile è piano e divulgativo, l’autore, come in un “romanzo”, seleziona, sulla base della ricca documentazione esistente, una serie di personaggi che segue passo passo nei giorni, nelle ore precedenti la catastrofe, nei momenti di terrore e di panico in cui infuria la tempesta e in quelli difficili e per alcuni strazianti del post-uragano. Ma, come si evince anche dal titolo, il vero protagonista è Isaac Cline, il capo della locale stazione metereologica, un uomo che, fino a quel tragico giorno, era il paradigma del self-made man americano, intraprendente, sicuro e soddisfatto di sé, laborioso, infaticabile, baciato dal successo, fiducioso nella scienza e nel futuro: gli errori di valutazione compiuti, da lui e da molti altri, in quel frangente, la sua incapacità di prevedere la tragedia imminente scuoteranno dalle fondamenta questo suo castello di certezze, e ne pagherà un prezzo molto caro, venendo colpito proprio negli affetti più cari.

Tutta la prima parte del saggio è dedicata a illustrare la vita, la personalità e la carriera di Cline prima del suo arrivo a Galveston, ma soprattutto a dare un quadro della città nella sua favolosa crescita di fine XIX secolo, e a ricostruire tutta una catena di errori umani e di colpevoli trascuratezze, la presunzione di uomini ormai convinti di poter controllare la natura, ma anche una incredibile serie di circostanze che contribuirono a creare, fin dalle primissime, microscopiche particelle che si aggregano nel cielo sopra l’Africa occidentale, l’uragano “perfetto”, che inizia poi il suo viaggio lungo l’Oceano Atlantico, cresce a dismisura e raggiunge prima Cuba, quindi il Golfo del Messico. Si alternano quindi capitoli che presentano i personaggi in scena (un ruolo importante è anche quello del fratello minore di Isaac, Joseph, anch’egli metereologo e da sempre in strisciante competizione col maggiore: la tragedia che colpirà la città sarà anche un traumatico momento di rottura nel loro rapporto), ad altri in cui la presenza umana svanisce, ed è solo la silenziosa, inarrestabile e ineluttabile potenza della natura che si dispiega: man mano che questa “tecnica” viene portata avanti, aumenta il senso (di sapore effettivamente romanzesco o “cinematografico”) di tragedia incombente.

Oltre alle conoscenze ancora insufficienti dell’epoca, parte delle ragioni per l’inesistente preavviso dato alla popolazione sta anche nelle vicende interne del Weather Bureau, su cui Larson si sofferma: il Weather Bureau, la struttura del governo USA predisposta alle previsioni metereologiche, era all’epoca relativamente recente ed era ancora guardato con diffidenza o con sufficienza non solo dall’opinione pubblica, ma dallo stesso governo. La dirigenza, più attenta alle ripercussioni sull’immagine dell’ufficio di un possibile “falso allarme” che ad altro, fece di tutto per sminuire la portata della tempesta, e sbagliò completamente nel calcolarne la rotta. È anche vero che quest’uragano ebbe un comportamento e un tragitto anomali rispetto ad altri osservati in precedenza; infine, gli allarmi provenienti dalle stazioni metereologiche di Cuba vennero ignorati anche a causa di una buona dose di orgoglio nazionalistico nei confronti di scienziati spagnoli ritenuti ignoranti e “impressionabili”, e più in generale Larson osserva che il sentimento diffuso di fiducia illimitata nell’uomo e nelle macchine che pervadeva la mentalità di inizio XX secolo, e il clima di euforia e orgoglio che il progressivo e apparentemente inarrestabile affermarsi, proprio in questo periodo, di una nazione giovane quali gli Stati Uniti come grande potenza, abbia spinto a sottovalutare i pericoli che l’elemento naturale era in grado di scatenare.

Purtroppo il “turno” di questo libro è capitato in un periodo scomodo, fra viaggi fuori città e impegni vari, e la lettura è risultata molto spezzettata, soprattutto per la prima parte, che ne ha più sofferto: verso la metà infatti ero abbastanza insoddisfatta, per un antefatto che si stava trascinando a lungo. Ho poi rivisto il mio giudizio, anche alla luce della seconda metà del libro, che ho potuto leggere in condizioni più favorevoli, incentrata sulla descrizione del cataclisma e quindi più “intensa” ed emozionante, e ho compreso che anche la prima parte era utile all’insieme così com’era. Oltre tutto anche altre ragioni contribuivano a rendere l’esperienza di lettura un po’ pesante: prima o poi, si spera, gli USA si decideranno ad adottare il sistema internazionale di unità di misura, perché qui di fare tutte le volte le conversioni fra gradi Fahrenheit e Celsius, fra pollici e centimetri, eccetera, alla lunga non ho avuto più voglia e, siccome sono dati importanti per comprendere i fenomeni descritti, sono consapevole del fatto di aver perso parecchio. Mi dispiace, ma è colpa loro!

Una volta iniziato il libro mi sono accorta che Erik Larson è autore anche de Il giardino delle bestie, che forse vorrei leggere: non sono rimasta particolarmente colpita da questo modo di scrivere un saggio come se si stesse raccontando una storiella (anche se, non lo nego, le pagine dedicate all’infuriare dell’uragano sono spaventose ed emozionanti), né dalle frasette messe a fine capitolo a mo’ di cliffhanger, trovata un po’ “teatrale”, per cui non so se mi piacerà.

Erik Larson, Isaac’s Storm, voto = 3/5
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The Last Runaway

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Devo confessare che da tempo nutrivo un certo qual pregiudizio verso l’autrice Tracy Chevalier, divenuta celebre per La ragazza con l’orecchino di perla: senza aver mai letto un suo romanzo (credo che molti lettori abbiano le loro personali idiosincrasie), credevo comunque di poterla ritenere un po’ patinata, autrice di romanzi storici ben confezionati, ma poco saporiti, “scolastici”. Però un elemento nel riassunto della trama di questo ultimo suo libro mi aveva incuriosito.

La protagonista, Honor Bright, ragazza quacchera appena arrivata in America dall’Inghilterra, si ritrova per la prima volta di fronte all’istituzione della schiavitù, cui la comunità quacchera (lo scopro grazie alla lettura di questo romanzo) è da sempre contraria, e si impegna dunque nell’aiutare gli schiavi neri in fuga dal Sud verso il Canada; nella sua azione è aiutata da altri affiliati alla rete clandestina chiamata “Underground Railroad”, ma ostacolata, fra l’altro, da Donovan, cacciatore di schiavi che incarna tutto ciò che Honor più disprezza, ma con cui, manco a dirlo, subito nasce una forte attrazione fisica; siccome col tempo e con le ultime letture sto diventando una “romanticona”, ammetto dunque di aver letto il libro principalmente per questa promessa di attrazione fatale/tensione erotica fra due opposti e apparentemente inconciliabili caratteri. Parte della “responsabilità” per la parziale delusione, quindi, è anche mia che ho creduto (a torto) che il rapporto fra i due fosse più centrale nella storia.

Dorset, Inghilterra, 1850. Complice anche una delusione d’amore, Honor Bright, di fede quacchera, decide impulsivamente di seguire in America la sorella Grace (la quale a sua volta non sembra molto più riflessiva e giudiziosa, parte per raggiungere il futuro marito, un uomo più anziano che a malapena conosce e che ha accettato di sposare probabilmente perché attratta dalla voglia di novità e avventure). Dopo un primo capitolo in cui praticamente leggiamo solo quanto ha vomitato Honor durante la traversata (dovrebbe farci capire che per lei si tratta di un viaggio senza ritorno, perché non sopporterebbe di ripetere l’esperienza, ma l’autrice insiste talmente tanto sulla nausea della protagonista che, a parte lo schifo, risulta solo comicamente esagerato), finalmente si entra nel vivo. Purtroppo l’avventura americana di Grace finisce ben prima che le due sorelle raggiungano la loro meta (Faithwell, Ohio, dove vive una consistente comunità quacchera), perché pochi giorni dopo l’arrivo la ragazza si ammala e muore; Honor si ritrova così completamente sola e lontanissima da casa, in una terra straniera che fatica a comprendere, ospite inaspettata e non troppo gradita dell’uomo che sarebbe dovuto diventare suo cognato. Senza più Grace al suo fianco, la presenza di Honor in America non ha più un vero “scopo”, e oltre tutto è poco opportuno che ella viva sotto il tetto di un uomo che non è suo marito, perciò dalla comunità cominciano ad arrivarle pressioni più o meno velate perché trovi una sistemazione più stabile e consona sposandosi al più presto. Peccato che anche la sua famiglia acquisita non la accolga proprio “a braccia aperte”… Come accennavo sopra, fra gli aspetti inediti e più odiosi di quel nuovo mondo vi è la schiavitù: Honor scopre subito che anche gli altri quaccheri della comunità, compresa la famiglia del neomarito, la condannano, ma fra l’enunciare principi a parole e far seguire l’azione ai discorsi il passo è lungo, e quindi il suo impegno concreto incontrerà la disapprovazione dei suoi compagni, timorosi della legge, che punisce chiunque presti aiuto a uno schiavo in fuga. Fortuna che esistono anche persone anticonformiste come la modista Belle Mills, l’unica persona che Honor può considerare davvero amica, il cui fratellastro però è proprio il già citato Donovan.

Va beh, basta col riassunto della trama, tanto non è un romanzo in cui succedano grandi colpi di scena uno dopo l’altro. La storia poteva essere interessante, ma la protagonista, attraverso gli occhi della quale seguiamo lo sviluppo della vicenda, già di suo non è molto simpatica. L’autrice forse la vuole presentare soltanto come introversa, silenziosa e riflessiva, però dalle pagine risulta involontariamente anche fastidiosa e rompiballe: d’accordo che, poverina, la situazione in cui si viene a trovare è tutt’altro che rosea e ha poco da stare allegra, ma per tutta la prima parte del libro non fa altro che lamentarsi, tranciare giudizi e trovare difetti in tutto e tutti (gli Americani sono tutti sguaiati, le donne americane non sanno cucire e tenere in ordine la casa come sa farlo lei, il tempo in Ohio fa schifo, o è troppo caldo o è troppo freddo, nessuno la tratta bene e tutti la fanno sentire di peso…). Inoltre, il personaggio vede, intuisce, capisce e riflette subito troppo e troppo acutamente sulle cose nuove che scopre e gli eventi che le accadono, coglie subito troppi dettagli, fa subito troppe associazioni e collegamenti, con molte frasi sentenziose sulle differenze fra Inghilterra e Stati Uniti e sul modo di vivere e di pensare degli Americani, per non avvertire subito la presenza ingombrante e fastidiosa dell’autore (insomma, Honor mi sembra troppo “sveglia” per una ventenne che fino a quel momento non ha visto nulla del mondo oltre al suo paesello nella campagna inglese, è evidente che è un “mezzo” per fare osservazioni da outsider sulle caratteristiche e sulle storture della società americana dell’epoca).

E poi il finale fa cadere un po’ le braccia. Tutte le righe seguenti sono coperte per non rovinare la sorpresa a chi vuol leggere il libro, vanno evidenziate per visualizzarle. Dopo la fuga della stessa Honor, che non accetta più di piegarsi ai compromessi che il marito Jack e gli altri quaccheri fanno tra i loro ideali e il quieto vivere, la famigliola alla fine si riconcilia, nonostante i contrasti fra marito e moglie non sembrino risolti (o ci si vuole far credere che si risolvano in due righe) e nonostante Jack sia uno dei personaggi più scialbi del libro. Anche la decisione di spostarsi a ovest, sebbene nella sua riflessione finale Honor ci assicuri che ormai ha smesso di “scappare da” (“run from”) e ora invece, seguendo la filosofia di vita degli Americani, abbia imparato ad “andare verso” (“run towards”), verso il futuro, verso nuove possibilità, eccetera, continua a sembrarmi in tutto e per tutto una fuga dal problematico dilemma se aiutare o no gli schiavi mettendosi contro la legge. Allora, se fuga dev’essere, che avvenga in modo clamoroso, con la ragazza che abbandona scandalosamente il tetto coniugale assieme a un Donovan “redento”, col quale evidentemente sente maggiore affinità che col marito (e invece la parabola di “redenzione” di questo personaggio viene lasciata a metà in modo un po’ ambiguo: non sembra credere fino in fondo alla giustezza di ciò che fa, e nella scena finale probabilmente agisce solo per gelosia, però i confronti fra lui e Honor sono sempre brevi e inconcludenti, per lo più l’uomo si vede di sfuggita o è menzionato da altri come fosse il babau… Insomma, hai un personaggio che appare potenzialmente capace di interessanti sviluppi e tensione, usalo di più, no?).

Comunque, ho imparato cose nuove sui quaccheri, sull’esistenza della Underground Railroad che proprio attraverso l’Ohio aveva le sue rotte fondamentali, non ho imparato invece granché su come fare le trapunte (la grande passione di Honor) perché non mi interessa affatto e tutti i passi con i dettagli su questa tecnica di cucito li ho scorsi assai rapidamente. Interessanti anche le osservazioni stupite, dal punto di vista dell’osservatore proveniente dal Vecchio Mondo, sulla continua spinta al movimento della società americana (per Honor, vissuta sempre nello stesso posto, è una novità “l’irrequietezza” degli Americani, il fatto che in America non vi sia nulla di eterno e immutabile), allo spostarsi verso altre terre, al ricominciare daccapo e ricostruire la propria vita altrove, senza paure e senza rimpianti.

Nell’edizione italiana (L’ultima fuggitiva, Neri Pozza), suppongo, tutta la resa della particolare parlata dei quaccheri (che usano “thee” al posto di “you” come pronome di seconda persona singolare, ad esempio) sarà andata completamente persa.

Tracy Chevalier, The Last Runaway, voto = 3/5
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Conquista. La distruzione degli indios americani

Proseguendo sul tema introdotto da Le parole di Malinche, ho recuperato dalla libreria questo volume acquistato sulla bancarella dei libri usati del sabato tempo fa. Non sono, questi due, gli unici libri sull’argomento della Conquista spagnola delle Americhe che ho letto: sicuramente l’interesse è nato sentendo parlare di Bartolomé de las Casas, il che può essere stato leggendo Meraviglia e possesso. Lo stupore di fronte al nuovo mondo, di Stephen Greenblatt (il Mulino, 1994), nel dicembre 2002. La Brevissima relazione della distruzione delle Indie del celebre domenicano, la sua biografia scritta da Marianne Mahn-Lot e altri volumi di Nathan Wachtel sull’evangelizzazione degli indios sono altri testi in lista d’attesa.

Mi aspettavo un libro di storia politico-militare; non sapevo, invece, che l’autore, Massimo Livi Bacci, è un demografo, perciò il suo obiettivo non era tanto fornire una ricostruzione degli avvenimenti, ma indagare le cause della catastrofe demografica che colpì le popolazioni autoctone nell’impatto con gli europei.

Non proprio il mio pane, ma forse appunto per questo la lettura è stata diversa e interessante. Si parte da un dato di fatto difficilmente contestabile: le popolazioni autoctone delle Americhe crollarono drasticamente di numero a partire dal secolo XVI (quando non si estinsero del tutto, come avvenne ai taíno delle Antille, che ebbero la disgrazia di subire il primo e più devastante impatto con gli spagnoli), e si ripresero solo lentamente e non prima della fine del XVII secolo. Ma questa è forse l’unica affermazione che può essere fatta con certezza: infatti, l’autore si sofferma a lungo sulle differenti ipotesi che sono state fatte dagli storici per quantificare la popolazione prima dell’arrivo degli spagnoli, dato che non sapremo mai con precisione vista l’assenza di fonti, e che tuttavia è fondamentale poter almeno approssimare per districarsi fra le cause dell’evoluzione successiva. In estrema sintesi, più è alta la stima della popolazione pre-Conquista, più il crollo assume proporzioni catastrofiche e meno riconducili alla sola violenza della Conquista e delle guerre, che per quanto terribili non giustificano perdite di decine di milioni di individui, mentre aumenta il peso che le nuove malattie ed epidemie ebbero nello sterminare le popolazioni. Viceversa, partendo da stime pre-Conquista più contenute, il crollo rimane netto ma si fa comunque meno catastrofico.

La verità è che è impossibile determinare una causa unica: anche le nuove patologie, di cui pure Livi Bacci sottolinea la “responsabilità” maggiore nella decimazione delle popolazioni, non poterono essere sufficienti, poiché, se la prima ondata di epidemie si abbatté su individui totalmente indifesi e senza difese immunitarie e fu di conseguenza la più devastante, le successive dovettero fare progressivamente sempre meno vittime, dato che, appunto, nel frattempo sempre più persone diventavano immunizzate. D’altra parte, l’impatto delle malattie fu diverso anche a seconda della densità di insediamento delle popolazioni: tanto maggiore in società più organizzate e “urbanizzate” come il Messico, minore in territori in cui le popolazioni vivevano distribuite in spazi immensi e difficilmente accessibili, come gli altipiani del Perù. La violenza delle guerre e le atrocità dei conquistadores non furono ovunque di intensità uguale: il Messico venne piegato in relativamente poco tempo da Cortés e non conobbe poi più gravi conflitti, mentre in Perù la popolazione fu decimata dalle guerre civili che infiammavano l’impero inca già da prima dell’arrivo degli spagnoli, quindi dalle lunghe guerre contro gli invasori, dalle rivolte degli indigeni e dai contrasti scoppiati fra gli stessi conquistadores, in un susseguirsi di scontri sanguinosi che durarono per circa un secolo. Allo stesso modo non tutto si può attribuire all’avidità dell’oro e al lavoro massacrante nelle miniere: il regime dell’encomienda generò spaventosi abusi, ma ancora più gravidi di conseguenze, nel lungo periodo, furono i grandi spostamenti cui le popolazioni furono costrette perché soggette alla mita, ovvero il lavoro forzato di mesi che si svolgeva spesso a chilometri e chilometri dalle loro terre di origine, in climi e altitudini notevolmente diversi. Cambiamenti di natura sociale influirono poi in diversa misura, come la sottrazione di un gran numero di donne indios dal pool riproduttivo (perché prese come mogli o concubine dagli europei), o la graduale affermazione della monogamia introdotta assieme al cristianesimo.

Ciò che colpisce, in questo libro, è l’amplissimo respiro, di spazio e di tempo, che ha l’indagine (una gradita differenza rispetto a tanti altri saggi storici che leggo, comunque interessantissimi ma spesso concentrati su realtà molto anguste), e la quantità di strumenti e nozioni differenti necessari per la raccolta e l’analisi dei dati: la conoscenza delle patologie, del clima, delle tecniche agricole, della storia delle idee contribuiscono tutte a illuminare su una serie di concause che determinarono il destino dell’America latina nei secoli successivi.

Massimo Livi Bacci, Conquista. La distruzione degli indios americani, voto = 3/5
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Le parole di Malinche

8 marzo, invece di andare a vedere lo spogliarello maschile ho deciso di iniziare la biografia di una celebre donna della storia, “celebre” e allo stesso tempo anche “misteriosa”: Malinche, la donna maya che fu interprete e amante di Hernán Cortés durante la sua conquista del Messico.

Non propriamente su questo libro ma sulla figura di Malinche lessi questo articolo su un Corriere della Sera di qualche anno fa che mi interessò all’argomento, mentre questo volumetto proviene dal bottino di un fortunato e fruttoso “setaccio” di qualche anno fa della sezione Remainders del sito IBS. Un’impresa forse disperata, scrivere la biografia di una persona su cui sono più le leggende e le voci delle notizie certe, di cui sono ignote data di nascita e data di morte e di cui, soprattutto, pur essendo passata alla Storia per la sua voce di interprete e traduttrice, non esiste neppure una registrazione di prima mano delle sue parole.

In realtà, infatti, per molte pagine il libro tratta dei viaggi dell’autrice in Messico sulle tracce di Malinche, tracce materiali che, necessariamente, non possono che essere estremamente labili e poco significative (il nome di un fiume, un giardino, una casa in cui, forse, abitò alcuni anni e che quando l’autrice la visita appare ormai radicalmente modificata), mentre più presenti le tracce nell’immaginario collettivo, che emergono dai dialoghi e dalle domande, a volte anche un po’ ingenue, che Lanyon pone ad alcuni cittadini messicani, spesso sconosciuti incontrati casualmente, in merito a questa donna. I capitoli più specificamente biografici si fondano quasi esclusivamente sui resoconti del compagno di Cortés Bernal Díaz, e comunque le fonti non sono mai citate in modo esaustivo; alle fonti di archivio si ricorre come “ultima risorsa”, di fretta (e, ormai non vale neanche più la pena di sottolinearlo, chi lavora in un archivio è indifferentemente “archivista” o “bibliotecario”). Insomma, per avere un quadro un po’ meno “impressionistico” della vicenda forse farei meglio a leggere un altro libro, magari questo (già acquistato). Ma, come primo approccio “light”, il testo della Lanyon può andare.

Più originali e interessanti sono invece le riflessioni sul ruolo “postumo” di Malinche, sull’etichetta di “traditrice” del popolo messicano che le è stata appiccicata, e perché, e sulla sua persistenza come figura importante nelle credenze popolari e nella mitologia della giovane nazione messicana. La Lanyon, dopo aver facilmente smontato l’accusa di “tradimento” (non esisteva allora alcuna identità nazionale o culturale “messicana” da proteggere, e l’odierno Messico era diviso in tanti regni: in questo senso Malinche non è più “traditrice” delle popolazioni nemiche dei culua-mexico, che sarebbe il nome corretto del popolo azteco, di Tenochtitlan che si allearono con gli spagnoli di Cortés per sconfiggere i loro rivali di sempre), sottolinea anche il periodo in cui, non casualmente, iniziò a circolare, e cioè nel periodo delle lotte indipendentiste e nazionaliste contro il dominio spagnolo, nel XIX secolo, quando era ovviamente più conveniente politicamente richiamarsi alla tradizione pre-Conquista. Interessante anche l’osservazione che l’esperienza di Malinche sarebbe stata il “prototipo” del modello di colonizzazione spagnolo, che puntò fin da subito sulla mescolanza, sul meticciato, sui matrimoni misti, differenziandosi ad es. da altri casi, come il Nordamerica dei coloni britannici e francesi, in cui invece fin dall’inizio si scelse e si praticò una netta separazione dalle popolazioni autoctone.

Qua e là spuntano dei misteriosi “francescani evangelici”, o “evangelici francescani”, e, dopo averci riflettutto, ritengo che debba trattarsi di “evangelizzatori”, altrimenti il discorso è incomprensibile. A p. 195 papa Clemente VII diventa erroneamente Clemente VIII.

Anna Lanyon, Le parole di Maliche (trad. Ira Rubini), voto = 3/5
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