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Gli occhi di Rubino

Ahimé, nonostante questo libro recasse come sottotitolo “Di cani, di libri, di cani nei libri” e avesse quindi, sulla carta, tutti gli ingredienti per essere più che eccellente, il piacere che ho provato nel leggerlo non è stato grande quanto mi sarei aspettata. Forse ciò è stato anche dovuto a condizioni di lettura sfavorevoli: in treno, senza Internet, gran parte delle razze nominate in gran copia in queste pagine mi erano sconosciute né potevo rapidamente averle sott’occhio, così che mi era spesso impossibile visualizzarle, e parimenti il linguaggio tecnico usato nel descriverle è andato sprecato.

Hans Tuzzi, pseudonimo del bibliofilo ed erudito Adriano Bon, scrisse il primo nucleo del libretto, il capitolo “La linea di sangue di Colby”, come opera d’occasione stampata a proprie spese e distribuita a una ristretta cerchia di amici: in effetti questa origine privata del testo si fa sentire in allusioni ad aneddoti e a persone che presumibilmente in fase di revisione per la pubblicazione si è scelto di non rivelare, nella presenza di riflessioni strettamente personali, e limita il godimento che un estraneo ne può ricavare. Ma in parte la “colpa” è anche mia, della mia ignoranza degli autori, e soprattutto delle opere, citate en passant (certamente non era possibile riportare brani di tutte), in cui si trovano passi dedicati ai cani. Meglio, molto meglio il secondo capitolo (“Di un’altra razza”), dove l’autore fa una dotta carrellata (necessariamente rapidissima) sulla letteratura più antica, concentrandosi soprattutto sulla trattatistica sulla caccia (è noto che in passato i cani da caccia erano uno degli status symbol più pregiati dei signori, celebrati da artisti e letterati anche in funzione simbolica per le loro virtù di potenza, fierezza, nobiltà e fedeltà, leggermente dopo hanno iniziato a essere considerati i cani “da compagnia” per le dame, mentre sempre ignorati fino ai tempi recenti i cani con compiti più umili come quelli da pastore), e presenta alcuni gustosi o teneri aneddoti provenienti soprattutto dagli ambienti delle corti del Rinascimento italiano. Un particolare che mi ha colpito: siamo abituati a pensare che la “mania” di cappottini e abitini per cani sia recentissima, e invece già all’epoca fior di artigiani erano impegnati a produrre collari, coperte e persino corazze (d’altronde utili per proteggere i preziosi esemplari dai reali rischi della caccia) per i cani dei loro signori, e anche artisti famosi come Giulio Romano potevano venire incaricati di progettare monumenti funebri per i preferiti. Chiude il volume una bibliografia (limitata ai titoli usciti prima del XIX secolo) sull’argomento cane e cane da caccia in particolare. Poche le illustrazioni, tra cui due celebri ritratti di Tiziano (Federico II Gonzaga e Carlo V) e soprattutto il quadro Il nano del cardinale Granvelle con un cane, di Anthonis Mor, che è stato scelto anche per la copertina, in cui si evidenzia il contrasto fra lo sguardo duro, distante, freddo e quasi “morto” del nano e quello dolce e paradossalmente umanissimo del cane.

Qua e là, frasi sui cani che, come sempre, fanno venire le lacrime agli occhi a chi li ama.

“Nel migliore dei casi i cani sono vagabondi infestati da parassiti, non fanno altro che grattarsi e rimpinzarsi, impuri per la legge di Mosè e di Maometto; ma un cane col quale si divide il proprio tetto per almeno sei mesi l’anno; una creatura libera, così affezionata a voi che senza voi non muove un muscolo; un’anima paziente, sobria, ironica, saggia, che conosce il vostro stato d’animo prima ancora che lo conosciate voi stessi, non può chiamarsi cane sotto nessun aspetto” (Rudyard Kipling)

Hans Tuzzi, Gli occhi di Rubino. Di cani, di libri, di cani nei libri, voto = 2,5/5
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