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Quando le anime si sollevano

Volevo scrivere una recensione bellissima appena terminata l’ultima pagina, ma mi mancavano le parole… e, soprattutto, non avevo tempo da perdere, perché dovevo subito andare avanti con la lettura di questa voluminosa “Trilogia di Haiti”, incentrata sulla rivolta degli schiavi neri capeggiata dal carismatico Toussaint L’Ouverture alla fine del XVIII secolo.

Ora che ho finito anche il secondo volume, Il Signore dei crocevia, e mi sono un po’ calmata, mi sforzerò. La colonia francese di Saint-Domingue, nel 1791, risente dei tumultuosi cambiamenti che stanno investendo la madrepatria. Sulla scena, gli attori sono molti e tutti con interessi contrapposti: fra i bianchi, i grandi proprietari che si servono della manodopera degli schiavi e la borghesia del commercio, più sensibile agli ideali rivoluzionari ma notevolmente meno estremista dei giacobini europei; i disprezzati ma spesso facoltosi meticci, che rivendicano gli stessi diritti dei bianchi; i neri, riuniti nelle piantagioni come schiavi o in bande di fuggitivi nascosti nelle foreste dell’interno, arrivati dall’Africa o nati sull’isola, uniti comunque dal patrimonio comune delle pratiche voodoo.

I destini di tanti personaggi, un medico da poco arrivato sull’isola e sua sorella, un grande proprietario schiavista e sua moglie, una prostituta meticcia, un mezzosangue figlio illegittimo di un bianco, uno schiavo in fuga, un soldato, un avventuriero, un singolare missionario, si intrecciano magistralmente su uno sfondo cupo di violenza che vede ciascuna fazione (bianchi, meticci, neri) inizialmente l’una contro l’altra, quindi in cerca di fragili alleanze sempre mutevoli, continuamente ribaltate e messe in dubbio, esplosioni improvvise di ferocia e inaspettate redenzioni.
Preoccupati per la piega sempre più radicale che sta prendendo la politica francese e convinti di poter facilmente controllare la situazione, un gruppo di grandi proprietari bianchi schiavisti prepara il terreno per una rivolta “dimostrativa” dei neri, che nelle loro intenzioni deve servire solo a spaventare l’opinione pubblica e il governo per attrarli dalla propria parte, ma che sfugge loro totalmente di mano, generando uno spaventoso massacro della popolazione bianca da parte delle bande dei ribelli, spesso disorganizzate e ferocemente assetate di vendetta per le tremende sofferenze patite, mentre i rappresentanti della Francia rivoluzionaria, dopo aver inizialmente cercato l’appoggio della componente meticcia, intraprendono una politica di alleanza sottile e rischiosa proprio con la popolazione nera, fino all’abolizione della schiavitù, per rendere irreversibile la radicalizzazione e sbarazzarsi dei realisti una volta per tutte. Nel frattempo, comincia a emergere la figura carismatica di Toussaint Bréda (che poi si farà chiamare Toussaint L’Ouverture), all’apparenza un umile schiavo nero non più troppo giovane esperto di erbe mediche, e invece in realtà l’unico che, probabilmente, ha di fronte a sé un obiettivo ben preciso e non negoziabile, la definitiva abolizione della schiavitù e la liberazione della sua gente, ed è in grado di muoversi abilmente e astutamente per raggiungerlo a qualsiasi costo.

Si possono fare paralleli con un’altra “trilogia” da me letta di recente, quella dello scrittore danese Thorkild Hansen (questo post e successivi): là l’autore non sceglieva la strada dell’invenzione narrativa ma ricostruiva, concentrandosi su alcune figure rappresentative realmente esistite, più o meno note o nomi che hanno lasciato solo una flebile traccia di sé e da lui sottratti all’oblio, la storia del commercio, del trasporto e del trattamento degli schiavi, stavolta nelle colonie danesi nelle Antille. L’effetto era quello di una panoramica a tutto tondo e che abbracciava diversi secoli, ma la maggiore affinità con l’opera di Madison Smartt Bell si ha probabilmente nell’ultimo capitolo della trilogia, Le isole degli schiavi, in cui viene narrata, con piglio tragicamente romanzesco, la sanguinosa rivolta nell’isola di Saint John del 1733, tentata da Kong Juni, capo-tribù africano: là, però, la violenza vendicatrice si sfogò e si esaurì in se stessa, non riuscì a saldarsi a un compiuto progetto politico, anche perché non poté approfittare di un contesto favorevole come quello della Rivoluzione francese, e rimase un episodio destinato al più totale fallimento. Ma ciò nonostante le due figure dei comandanti, pur diversissime, grazie alle penne di Hansen e Bell assurgono a una dimensione epicamente tragica e di profonda dignità (più nota, naturalmente, la figura di Toussaint L’Ouverture, su cui esiste un’ampia letteratura).

Per tornare a Quando le anime si sollevano, accanto alla forza e all’importanza dei temi trattati, non bisogna trascurare il fatto che questo libro regala anche ore di piacere puro grazie alla sua trama avvincente e avventurosa. È meraviglioso anche come riesca a essere commovente e a descrivere con forza e persuasione grandi passioni, tenendosi tuttavia lontano da qualsiasi scivolone nel sentimentalismo, e mantenendo anzi un tono asciutto e spesso brutale (qualcuno, su Goodreads, lamentava l’eccessiva violenza di certe scene e di certe immagini: ma essa è essenziale per far comprendere appieno la realtà delle atroci condizioni di vita nelle piantagioni, delle inumane punizioni, l’esasperazione degli sfruttati, lo stato di tensione e sospetto costante).

Un romanzo-fiume (ma le successive puntate della trilogia sono ancora più voluminose) che però, se lo leggerete, scorrerà via alla velocità della luce… e più vi avvicinerete alla fine, più vi rincrescerà il pensiero che siete “solo” a… svariate centinaia di pagine dalla conclusione e dovrete prima o poi risvegliarvi da questo incantesimo.

Se devo proprio trovare un difetto (che poi forse è da rimproverare più all’edizione italiana che all’opera in sé), la cartina di Haiti sul risvolto di copertina è un po’ troppo sommaria, una grande quantità dei luoghi citati nel romanzo non è presente e si finisce per perdere l’orientamento fra i continui spostamenti dei personaggi.

Questo è un romanzo scoperto totalmente per caso: stavo esplorando il catalogo di questa casa editrice a me finora sconosciuta, Alet, per arricchire un po’ il database di Goodreads. Oh, giorno fortunato!

Madison Smartt Bell, Quando le anime si sollevano (trad. Bona Flecchia), voto = 5/5
Per acquistarlo on line

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Il petalo cremisi e il bianco

Chissà quante cose mi perdo, per via del mio snobismo strisciante! Per questo romanzo, uscito nel 2002, si era gridato al capolavoro, ma, visto il successo, visto il fatto che ne parlava bene Antonio D’Orrico (il critico del Corriere, che per me ne accezza uno su 1000, e gli altri 999 sono marchette improponibili: vero che comunque ha indovinato anche La città perfetta…), l’ho evitato come la peste. Mi immaginavo un po’ la “solita” storia, con l’eroina femminile invariabilmente “forte” e “indimenticabile”, della ragazza perduta ma in fondo di buon cuore che fa la scalata ai gradini più alti della società grazie a una serie di scelte (e di letti) azzeccate, la storia d’amore tormentata fra lui ricco e lei povera ma sveglia, la lotta per farsi accettare senza perdere la propria identità, un classico.

Ho iniziato, inaspettatamente, a tornarci sopra solo molto recentemente, letta per caso una recensione (entusiasta) nel blog Candido; e, al pensiero dei 20 anni di ricerche (10 di scrittura) costati all’autore, Michel Faber, per quest’unico, primo romanzo, la curiosità è aumentata gradualmente. Ed è così che, trovato il volume a meno della metà del prezzo di copertina in una libreria dell’usato, ho voluto rischiare.

Iniziando un romanzo di 983 pagine, personalmente mi assale sempre un senso di… beh no, non ansia né scoramento, ma diciamo che mi è necessario raccogliere le forze per non lasciarmi intimidire dal contrasto fra l’esilità delle pagine via via lette e l’enorme mole di quelle ancora da affrontare, tanto più che, spesso, più il libro è lungo, più si prende il suo tempo per cominciare davvero a “ingranare”: considerato che non è mia abitudine, a meno che non si tratti davvero di schifezze atroci, abbandonare un libro senza finirlo, se è pure grosso spero almeno che ne valga un po’ la pena.

Questo non è successo qui. Non ne valeva la pena? Al contrario, intendo dire che non si è mai presentato questo timore. Non è possibile farsi venire questi dubbi, non ce ne è il tempo materiale, l’autore, fin dalle prime righe, a sorpresa, subito (“Attento”), ti prende di peso e ti porta lì, dentro il romanzo, ti parla, ti interpella, ti stuzzica, ti affascina, diciamo pure che ti ipnotizza. Non avevo mai letto un libro scritto in questo stile così particolare: ci sarà forse qualcuno che l’ha trovato maledettamente irritante e ha chiuso Il petalo dopo le prime 10 pagine per non riaprirlo mai più, io ne sono stata conquistata. È vero che, andando avanti, l’uso di questa tecnica così inconsueta e coinvolgente si attenua progressivamente, per rientrare nei canoni della narrazione più tradizionale, ma all’inizio, davvero, non saprei descriverla meglio di come sia stato fatto in quarta di copertina, dove si parla di un lettore che è “costantemente dietro la spalla di Sugar [il personaggio principale] e degli altri protagonisti”, oppure definendola come una specie di lunghissimo piano sequenza, senza stacchi (soprattutto nella prima parte), una carrellata vertiginosa per le strade della Londra del 1875 trotterellando trafelati dietro a questo personaggio, per abbandonarlo all’improvviso e mettersi a seguire quell’altro (la città, in effetti, è la vera protagonista del romanzo: a un certo punto ho persino cercato di orientarmi nel dedalo di indirizzi e strade tenendo a lato una guida di Londra, ma era davvero troppo macchinoso interrompere sempre la lettura per rintracciare questo o quel quartiere citato: ho rinunciato, consapevole del fatto che, rispetto ai lettori inglesi, ci perdevo molto).

Le 983 pagine sono, quindi, volate in appena 6 giorni. Come noterete, non dico una parola della trama, perché, davvero, non saprei come renderle giustizia. E non posso dir nulla neanche dei personaggi, Sugar, William, Agnes, Henry, Emmeline…

Penso che di questo libro mi ricorderò sempre la mia reazione alle prime righe di pagina 562, che mi hanno causato un dolore così atroce che ho dovuto interrompere e alzarmi, piagnucolando “no, no, no…”: e volevo avere Michel Faber davanti per buttarmi ai suoi piedi e chiedergli “perché, perché???”. Questo quadretto forse dà l’idea di quanto mi abbia appassionato la lettura! Dopo la fatidica pagina 562, cui ero arrivata dopo giorni che leggevo a una velocità vertiginosa, mi sono bloccata e non sono più riuscita ad andare avanti per quel giorno, e ho seriamente temuto che l’incantesimo si fosse spezzato: avrei finito il libro, certo, ma non sarebbe stato più perfetto come prima. Sbagliavo, fortunatamente, e ieri sera ho raggiunto il finale, che, ho letto, qualche altro lettore, su Internet, evidentemente anch’egli rapito dal libro al punto da aver sviluppato una sorta di dipendenza da “tossico”, definisce “da querela”…! È vero, ancora una volta è stata una fortuna per Faber che non l’avessi per le mani, e tuttavia quanto è giusto, quanto è perfettamente appropriato un finale simile!

S

P

O

I

L

E

R
***SPOILER***

Sì, il finale: amici che avete amato Il petalo cremisi e il bianco, lo so, esiste il seguito, Natale in Silver Street, che in realtà probabilmente riunisce racconti o brani che non sono stati inclusi nel romanzo, se non ho capito male. Non lo leggerò! Non voglio sapere quel che accade a Sugar, Sophie, William, agli altri, già mi pento di aver sbirciato fra i commenti (per lo più negativi, a dire il vero) dei lettori nella pagina di IBS: dimenticare, dimenticare tutto! Penso che non possa esservi fine migliore di questa profonda incertezza, di questo mistero senza soluzione. E Dio mi fulmini se oserò andare a vedere il film che, a quanto pare, dovrebbero trarre dal libro! Già tremo!!!

***FINE SPOILER***

Michel Faber, Il petalo cremisi e il bianco (trad. Elena Dal Pra, Monica Pareschi), voto = 5/5
Per acquistarlo su amazon.it, ibs.it o libreriauniversitaria.it

P.S. Ok, diamoci una calmata! Comunque, atmosfere simili ad Angelica di Arthur Phillips, se non altro per la triste e struggente cappa di incomunicabilità e solitudine da cui sono schiacciati i rapporti uomo/donna.

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I Viceré

Fino a un certo momento, sapevo solo che I Viceré era un romanzo italiano dell’Ottocento, e poco più. Maggiore interesse per l’argomento ho iniziato a nutrirlo quando uscì il film di Roberto Faenza, nel 2007. Non andai a vederlo (anche perché fu stroncato un po’ da tutti), ma fra gli spezzoni che passavano in televisione ricordo scene che mi parvero visivamente molto eleganti: in particolare, la locandina e i costumi maschili, con gli uomini in nero, dalle squisite redingote e dagli alti cilindri (si trattava degli attori Alessandro Preziosi e Lando Buzzanca). Quindi l’opera ha iniziato a essere inserita fra quelle che avrei anche potuto leggere, cosa che si è avverata in questi giorni.

A conti fatti, credo di aver fatto bene a lasciar stare il film: dal cast di attori che si trova alla pagina su Wikipedia parrebbe che, su 650 pagine di romanzo, gli sceneggiatori si siano concentrati solo sull’ultima parte. Criminali! E, oltre tutto, i volti degli attori mi avrebbero inevitabilmente “influenzata” nell’immaginarmi i personaggi.

Invece, benissimo ho fatto a leggere il libro, bellissimo sin dal primo capitolo, che presenta subito la scena dello sfarzoso funerale dell’anziana principessa Teresa Uzeda, perfetto nel calarci immediatamente nell’atmosfera barocca, esagerata, falsa, untuosa, morbosa, carica di ostentazione e di sotterranee rivalità di questa nobilissima e potente famiglia siciliana (di Catania, per la precisione), discendente di vari viceré di epoca spagnola, da cui il soprannome dato ai suoi membri.

La trama, che si dipana attraverso le vicende di trent’anni, dal 1855 al 1882, passando attraverso gli ultimi anni del regime borbonico, la spedizione dei Mille e l’Unità d’Italia e la presa di Roma, è quasi impossibile da riassumere. Al centro della scena stanno i sette figli della defunta, divisi da un testamento che ha messo l’uno contro l’altro soprattutto Giacomo, il primogenito, e Raimondo, il preferito della madre. E da questa prima causa scatenante non si contano le allenze, le trame, i mormorii, le rivalità che scoppiano tra questo e quell’altro membro della famiglia allargata, tra mariti, mogli, cognati, cugini, figli, suoceri, amanti, in un clima da guerra “tutti contro tutti”, di rissosità generale, di doppiezza, di violenza fisica e psicologica, di sopraffazione del forte sul debole.

In perfetto stile “parenti serpenti”, tutti i rapporti familiari nascondono doppi fini volti a favorire il proprio tornaconto personale, preludono a clamorosi voltafaccia in favore di quello o quell’altro a seconda della convenienza. Si respira un’aria malsana, malata, soffocante, sgradevole, pesante, e la scrittura asseconda questa impressione, adottando un generale tono sprezzante o ironico, non rifuggendo da particolari bassi, grotteschi, corporali, quando non palesemente disgustosi (l’aborto di Chiara) e macabri (la cripta), come se in essi meglio che altrove si rispecchiassero i veri caratteri dei personaggi.

I personaggi: qui sta tutta la forza di questo grande romanzo e il colpo da maestro di De Roberto. Mi è venuto da pensare, per contrasto, mentre leggevo (e magari qui qualsiasi critico letterario si metterà le mani nei capelli al paragone), a un altro grande romanzo che amo dell’Ottocento italiano, I promessi sposi, e all’affetto, o quanto meno l’umana compassione, con cui Manzoni guarda un po’ a tutte le sue creature (persino Don Rodrigo ha la sua occasione di redenzione quando, morente, viene perdonato da Renzo: forse solo individui irrimediabilmente malvagi come il Griso o il padre di Gertrude sfuggono a questa regola). Qui, invece, l’autore “odia”, o comunque disprezza, tutti i suoi personaggi, non ce n’è neanche uno che si salvi, ai suoi occhi.

Della vecchia principessa morta, Teresa, ci viene offerto un ritratto terrificante verso l’inizio: dispotica, spietata, inflessibile, implacabile, oppressiva, incapace di affetto verso tutti i suoi figli, trattati con una durezza incredibile, con l’unica eccezione del solo Raimondo, portato invece in palmo di mano.

E i sette figli? La maggiore, Angiolina, in religione suor Crocifissa, sepolta viva fin da bambina in monastero e praticamente dimenticata dal resto dei parenti, la rivediamo per pochissime righe verso la fine del romanzo, ormai adulta e mezzo rimbecillita, a ripetere come un automa le massime di supina obbedienza che le sono state inculcate fin dalla nascita. Il principe Giacomo, il primogenito maschio, il capo della casata, forse il vero protagonista dell’opera, avido, avaro, autoritario, superstizioso, non esita a ingannare in tutti i modi fratelli e zii per accaparrarsi quanto più possibile dei quattrini. Lodovico, anch’egli costretto dalla madre a entrare in religione, è ipocrita, falso, si è guadagnato un’aura di santità che stride invece violentemente con l’astio, il fiele, il rancore che prova verso tutti i parenti per l’ingiustizia subita, è ambizioso, calcolatore e opportunista, abile nel conquistarsi il favore di coloro che possono favorirlo nella sua ascesa, ma allo stesso tempo a non scontentare nessuno. Chiara è “monomaniaca” nel suo ossessivo desiderio di avere un figlio e instabile. Raimondo, l’unico favorito in tutto dalla madre, è proprio per questo egoista, prepotente, crudele, vanesio, donnaiolo, infantile, fatuo, viziato. Ferdinando è all’inizio semplicemente svagato e sulle nuvole, sembrerebbe, in confronto agli altri fratelli, quasi un buon diavolo, un po’ bizzarro, ma almeno disinteressato (e infatti proprio per questo gli altri lo trattano con aperto disprezzo), e invece col tempo diventa un misantropo mezzo matto e ipocondriaco. Lucrezia è capricciosa e cocciuta, sciocca, volubile, frivola e ingrata.

E gli altri parenti? I cognati della principessa Teresa, cioè gli zii di Giacomo e degli altri fratelli Uzeda, sono fra i personaggi umanamente più disprezzabili, quando non sono proprio macchiette, della famiglia: Gaspare è pavido e irresoluto, ma, a dispetto della sua palese incompetenza e incapacità, riesce a farsi eleggere deputato, e dalla sua posizione pensa in pratica solo ad arricchirsi a forza di maneggi, Blasco, anch’egli divenuto monaco per forza, è rabbioso, violento, aggressivo, rozzo, lussurioso, volgare, irascibile, sempre intento a criticare tutto e tutti e ad aizzare un membro della famiglia contro l’altro, Eugenio è pomposo, morto di fame, patetico e ridicolo, Ferdinanda, “la zitellona”, è severa, aspra, gretta, altezzosa, bigotta, divenuta ricca a forza di prestare soldi a usura. Consalvo, figlio di Giacomo, è la vera “anima nera” della famiglia, arrogante, scapestrato e selvaggio in gioventù, quindi, dopo la sua “discesa in campo”, furbo, opportunista, assetato di potere, falso e cinico (sarà lui il protagonista del seguito de I Viceré, L’imperio, lasciato però incompiuto da De Roberto). Sua sorella Teresa cresce, miracolo, buona, dolce e gentile, ma viene progressivamente anestetizzata, piegata e prosciugata di tutte le sue aspirazioni e dei suoi sogni dall’ambiente in cui vive, e finisce per diventare una specie di esaltata.

E i parenti acquisiti? Le donne sono in genere figure deboli e calpestate, come Matilde, prima moglie di Raimondo, vittima sacrificale delle crudeltà di tutti gli altri e incapace di reagire, o Margherita, prima moglie di Giacomo, cagnolina sottomessa al marito e sempre silenziosa, senza volontà propria, alla fine persino patologica nella sua estrema paura di qualsiasi contatto fisico, mentre Graziella, che sarà poi la seconda moglie di Giacomo, è pettegola, impicciona e intrigante, e insensibile ai desideri degli altri tanto quanto il principe. Benedetto, marito di Lucrezia, forse, assieme al padre di Matilde, una delle poche figure tutto sommato “positive” del romanzo, è però debole, ingenuo, e senza accorgersene lascia che tutti lo trattino da zerbino per poi scaricarlo senza pietà.

Visto? Un vero e proprio campionario di “mostri”, o “pazzi” scatenati, come si rinfacciano a più riprese l’un l’altro i membri della famigliola (e applausi per me che ho fatto sfoggio di un sacco di aggettivi diversi!). E l’unica ossessione per (quasi) tutti loro è questa: i soldi, i soldi, i soldi. Altro tema che spira sotterraneo è il forte anticlericalismo dell’autore, evidente nella viscida figura di Lodovico, più che dello zio Blasco (a tratti persino simpatico nel suo essere così improponibile, mentre Lodovico veramente viene descritto con una penna intinta nel veleno), e nei capitoli dedicati alla vita in monastero, covo della reazione, del pregiudizio di casta, dei partiti sempre in lotta fra loro, dei vizi più ostentati in barba alla Regola di s. Benedetto.

Da ultimo, De Roberto mostra una straordinaria lucidità nell’analizzare le tante contraddizioni della epopea risorgimentale e i mille problemi dello Stato unitario. La visione pessimistica dell’autore vuole che le linee di fondo della storia, pur negli sconvolgimenti di superficie, si ripetano sempre uguali a se stesse: il regno borbonico è caduto, l’Italia è una, il popolo è libero di votare, ma chi, alla fine, risulta il vincitore, il potente? Sempre loro, “i viceré”, gli Uzeda, con Consalvo appena eletto al Parlamento che, lucidamente, sa adattare alle mutate condizioni politiche e sociali i propri mezzi, sa fingersi quel che non è mantenendosi sempre, invece, perfettamente coerente con la sua natura nel suo intimo più profondo.

Che dire? CAPOLAVORO! L’ho preso in biblioteca e man mano che me ne innamoravo sempre più ho deciso di acquistarlo, mi sarebbe piaciuta quest’edizione (dalla collana “La Biblioteca di Repubblica”, così elegante, col cofanetto!), ma penso che invece la eviterò, è piena di errori di stampa!

Federico De Roberto, I Viceré, voto = 5/5

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Abissi

Abissi di Claire Nouvian è uno stupendo libro fotografico sulla fauna che popola le profondità degli oceani. Non è stata una sorpresa che mi sia piaciuto tanto, vista la mia fascinazione per i pesci e le creature del mare. Ma i pregi del libro non si esauriscono nelle tante immagini veramente mozzafiato (una roba magnifica, da vedere per crederci), opportunamente descritte: vi sono anche brevi saggi sui vari aspetti dell’esplorazione sottomarina, un campo che, apprendo, può riservare ancora moltissime sorprese. Fa un certo effetto, infatti, leggere che solo una minima percentuale degli oceani, che in proporzione sono ben più vasti delle terre emerse, sono stati esplorati, e che ad ogni nuova campagna di studi si scoprono migliaia di nuove specie animali di cui prima si ignorava del tutto l’esistenza! E si stima che siano ancora milioni quelle ancora sconosciute! Gli oceanografi sono infatti convinti che il terreno d’esplorazione per eccellenza del futuro potrebbe non essere tanto lo spazio profondo, quanto le profondità abissali, che ancora conosciamo così poco (e che sono però pesantemente minacciate dall’azione distruttiva dell’uomo, come spiegano i vari studiosi che intervengono nel volume)!
Il libro presenta un catalogo di esseri viventi sorprendente per caratteristiche e peculiarità sbalorditive: animali in grado di emettere luce propria, di vivere centinaia di anni, di non mangiare per settimane, di rendersi completamente trasparenti. Tutte caratteristiche perfettamente studiate per adattarsi all’ambiente veramente proibitivo dei fondali marini (immerso nell’oscurità perenne, freddissimo, completamente privo di flora), che fino a pochi decenni fa si immaginava privo di vita. Traspare, insomma, l’intatto stupore degli studiosi autori dei testi per la genialità e la varietà del processo evolutivo, che non può non emozionare.
Il linguaggio dei saggi non è certamente per bambini, contiene una terminologia precisa e scientifica, ci mancherebbe (un po’ scarno il glossario alla fine), ma allo stesso tempo è accessibile a tutti. Per le dimensioni che ha e il ricchissimo corredo iconografico (più di 200 foto, tutte a colori, e che colori!), il volume non costa neanche tanto (30 euro).

Claire Nouvian, Abissi (a cura di Marco Relini), voto = 5/5
Per acquistarlo su ibs.it o libreriauniversitaria.it

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La città perfetta

Porca miseria. Se volete leggere un libro semplicemente meraviglioso, ma se volete anche farvi un po’ del male, comprate La città perfetta di Angelo Petrella.

Per uno di quegli impulsi improvvisi che mi prendono in fatto di libri, avevo deciso che quello sarebbe stato il prossimo: per una volta va ringraziato D’Orrico che sul Magazine ha dato, miracolo!, un consiglio decente. Acquistato sabato mattina, ha dovuto aspettare che finissi di sorbirmi l’irritante India per signorine, che fortunatamente aveva appena 117 pagine. La regola (autoimposta) infatti è che non si legge più di un libro al giorno, e quindi, se ne finisci uno alle 8 di mattina, poi non puoi iniziarne un altro fino all’indomani! Assurdo, vero? Però io ho un sacco di regolette così, soddisfano il mio amore per le statistiche. 🙂

Comunque, ho preso finalmente in mano La città perfetta domenica, poco dopo pranzo (saranno state le 14 e qualcosa). A parte pochissime pause inevitabili, non ho più potuto lasciarlo fino alle 4.39 della notte: più di 500 pagine in meno di 24 ore, mi dicevo “accidenti, sarebbe ora di andare a dormire!!”, e però non potevo smettere, dovevo sapere come andava a finire, e questo credo sia il miglior complimento in assoluto che si possa fare a un autore. Meraviglioso, chapeau, e ancora sotto tutta piena di adrenalina per la lettura e non riesco a pensare ad altro.

La storia è ambientata in una Napoli soffocata dalla camorra, e si dipana tra il 1988 e il 1994. È una storia di camorra. Le vite di tre personaggi, un ragazzino che fa lo spacciatore e la sua famiglia è vittima di uno strozzino, uno studente di liceo affiliato alle Pantere, un investigatore della DIGOS cocainomane che vuole vendicare un collega ucciso, si intrecciano in modo sorprendente e brillante. La trama è complicata, un romanzo-fiume, una folla di altri personaggi, di posti (utile la mappa con i quartieri di Napoli all’interno della copertina), di tematiche drammaticamente legate all’attualità, eppure l’autore padroneggia il tutto sapientemente: la tecnica adottata è di far parlare i tre protagonisti, che prevalentemente si muovono su binari paralleli, a turno, in prima persona: sebbene io non sia una grande fan della narrazione in prima persona (in genere mi infastidisce: intanto mi rivela che, ad esempio, il protagonista non muore!), qua funziona. Una simile abilità nell’intrecciare la trama, nel far sì che ogni dettaglio ritorni immediatamente nel momento giusto, non è comune. E che personaggio, l’Americano!

Se non amate i libri con un linguaggio piuttosto crudo e con scene esplicite di violenza e sesso, non compratelo. Non compratelo se non amate i libri che non danno alla fine un qualche messaggio di speranza: qua non si salva nessuno. Se però amate i thriller, i romanzi noir, o come li volete chiamare, che vi tengono letteralmente inchiodati alla poltrona, prendetelo!

Angelo Petrella, La città perfetta, voto = 5/5
Per acquistarlo su ibs.it o libreriauniversitaria.it

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