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Vita segreta di Maria Capasso

No, malgrado il titolo, che può suonare ammiccante, non è l’ennesimo esempio della schiera di romanzi porno-soft che sta dominando il mercato negli ultimi tempi. Siamo proprio in un altro genere, quello del noir: Maria Capasso è una bella quarantenne napoletana, sposata con Antonio, operaio, tre figli. Gente modesta, ma che tutto sommato, pur fra i problemi di tutti i giorni che non mancano mai, vive una vita familiare tranquilla e felice. Destinata a non durare, perché Antonio scopre di avere una malattia incurabile e muore. Maria, rimasta vedova coi figli, dimostra però di avere l’intraprendenza e la grinta necessaria per sopravvivere, e anzi prosperare, in un mondo che in caso contrario l’avrebbe stritolata. Il problema è che le opportunità, ormai, le offrono solo la camorra e il mondo dell’illegalità.

Un romanzo che insomma vorrebbe mostrare quanto sia facile, per una persona onesta, trovarsi all’improvviso a dover compiere scelte impensabili e fatali, e che vorrebbe far riflettere su quanto sia ipocrita tranciare giudizi, perché i dilemmi di Maria sarebbero anche i nostri. Nei fatti, non è che questo messaggio riesca a risuonare in modo tanto efficace.

Tutto il libro è narrato in prima persona da Maria, un’operazione che mi ha ricordato molto il racconto Niente, più niente al mondo, di Massimo Carlotto (anche lì protagonista femminile, anche lì un mondo di fatica, di ingiustizie, di gente che non ce la fa): lì però era più convincente, forse perché il testo era più breve, ma reggere per un intero romanzo riuscendo ad “annullarsi” (apparentemente) come scrittore dietro il tuo personaggio non è facile, richiede grande abilità e controllo. E invece la “voce” della protagonista Maria non è sempre credibile (per fare un esempio, i personaggi parlano sempre in perfetto italiano tranne che per qualche sporadica espressione in dialetto buttata qua e là, che quindi, invece di far aumentare la verosimiglianza dei dialoghi, ne sottolinea anzi l’artificiosità), e forse proprio per questo non mi è mai riuscito di provare quel coinvolgimento emotivo che sicuramente l’autore si proponeva di suscitare (il prologo si conclude con un lapidario “Questa storia parla anche di voi”), non mi sono mai ritrovata a “soffrire” con lei o per lei, né a “tifare” pro o contro di lei.

E quindi la storia si legge giusto per vedere “come va a finire”, e anche qui si rimane un po’ delusi perché purtroppo, nella seconda parte, non mancano sviluppi un po’ prevedibili (la tresca di Gennaro con la giovane Angela, e relativa “soluzione” al problema escogitata da Maria), nonché altri episodi buttati un po’ lì senza che ve ne fosse grande bisogno (la storia tra Maria e Gigino, l’incredibile vicenda di pedopornografia che viene archiviata e dimenticata in poche pagine).

Insomma un libro che si fa leggere ma nulla più, “fa numero” per le statistiche di fine anno, e scorre via senza infamia ma sicuramente anche senza lode.

Salvatore Piscicelli, Vita segreta di Maria Capasso, voto = 3/5

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La baracca dei tristi piaceri

Ho scoperto Helga Schneider, scrittrice di origini tedesche ma ormai italiana d’adozione, nel 2001, da una nota sul Corriere della Sera sul suo libro forse più famoso, Lasciami andare, madre (Adelphi). La sua storia personale è tragica: quando Helga e suo fratello erano ancora bambini, nella Germania hitleriana, vennero abbandonati dalla madre, fanatica nazista, che divenne guardiana nel campo di concentramento di Ravensbrück. I due piccoli, affidati a una zia, si trovavano a Berlino negli ultimi tragici giorni della guerra, e furono persino portati nel bunker sotterraneo dove Hitler si era rifugiato. La Schneider rivide la madre solo nel 1998, e quell’incontro è appunto al centro di Lasciami andare, madre: a distanza di cinquant’anni, la figlia ritrova una vecchia che non ha rinnegato nulla della sua antica fede, che ancora è orgogliosadel suo lavoro di aguzzina, ancora sprizza odio e cieca obbedienza da tutti i pori, e che pure, incredibilmente, si ostina a cercare un riavvicinamento con la bambina che ha abbandonato senza rimpianti e che ora la guarda con orrore.

Insomma, la signora Schneider sicuramente la follia nazista la conosce bene, nulla da dire: da un po’ di tempo però ho l’impressione che come scrittrice sia sopravvalutata, che le tematiche che affronta (ovviamente, data la sua biografia, scrive per lo più, anzi quasi esclusivamente, sul nazismo e la guerra, spesso rivolgendosi anche a un pubblico di ragazzi), per quanto sicuramente educative e importanti, non riescano del tutto a mascherare le carenze della scrittura. E infatti questo suo libro, che uscì nel 2009, l’ho preso esclusivamente per l’argomento trattato, ben sapendo che molto probabilmente sarebbe stato quello il suo unico motivo di pregio.

L’esistenza dei bordelli nei campi di concentramento nazisti è stata a lungo un argomento tabù: comprensibilissime la reticenza e la poca disponibilità a parlare delle ex prigioniere costrette a prostituirsi, e altri motivi hanno fatto sì che fosse un tema poco studiato (la Schneider cita anche il timore di dare un assist ai negazionisti, che potrebbero sfruttare la presenza dei bordelli per sostenere che in fondo le condizioni di vita nei lager non erano poi così malvage). Nel 1943 il capo delle SS Himmler ritenne che, poiché i prigionieri costituivano gran parte della forza lavoro del Reich nel bel mezzo dello sforzo bellico, fosse di pubblico interesse assicurarne il “benessere” psico-fisico e una regolare attività sessuale, da cui l’istituzione dei bordelli, nei quali furono chiamate a lavorare, spesso con l’ingannevole miraggio di una più pronta liberazione, le prigioniere del lager femminile di Ravensbrück. La frequentazione dei bordelli era vietata a ebrei, Sinti, Rom e sovietici e, almeno inizialmente, anche alle SS. La baracca dei tristi piaceri segue la testimonianza di un’anziana donna berlinese di nome Herta Kiesel (sicuramente un nome di fantasia), arrestata nel 1943 perché fidanzata con un giovane di origini ebraiche. Rinchiusa nell’inferno di Ravensbrück, quando le viene proposto di lavorare con altre compagne nel bordello di Buchenwald, con la promessa che di lì a sei mesi sarebbe stata liberata (promessa che poi naturalmente si rivelerà del tutto falsa), si aggrappa a quella speranza e accetta senza neanche pensarci. Nel Sonderbau (“edificio speciale”) di Buchenwald trova in effetti migliori condizioni materiali di vita, ma a prezzo di uno sfruttamento e un degradamento ancora più schifoso, a opera prima di tutto delle spregevoli guardiane delle SS, e sfortunatamente anche degli stessi “clienti” prigionieri, poiché in un ambiente simile, purtroppo, neanche fra gli oppressi riesce a nascere un po’ di solidarietà. Herta e le altre prostitute forzate del Sonderbau sarebbero state usate anche per verificare l’efficacia della “cura dell’omosessualità” che uno dei medici nazisti del lager, Carl Vaernet, stava sperimentando sulle sue cavie umane. I traumi e le ferite di quegli anni terribili continueranno anche dopo la liberazione a tormentare Herta, che durante la prigionia è diventata dipendente dall’alcol, che solo con estrema fatica sarebbe ritornata ad avere una normale vita di affetti, senza peraltro avere mai il coraggio di raccontare la sua storia.

Questa, in definitiva, la vicenda che ha fornito alla Schneider l’ispirazione per il suo libro (o le vicende, se sono state messe insieme esperienze di più di una persona per creare una storia “esemplare”): come si vede, un tema di estremo interesse, quasi inedito, doloroso ma da conoscere. Peccato che il risultato non sia all’altezza.

Ci troviamo di fronte a un “romanzo”, e io lo giudico (anche) in base a questo assunto. C’è una cornice un po’ “tirata via”, che non è il massimo dell’originalità e dell’inventiva: a Berlino, una scrittrice incontra un’anziana donna (Herta) che ha vissuto sulla sua pelle l’orrore del bordello dei lager e che, in un lungo racconto, espone la sua storia. Il nucleo centrale è inframmezzato da lungaggini per lo più inutili (aveva uno scopo la presenza dell’amico della scrittrice, Marco, o era lì solo per metterci – gasp! – una storia d’amore omosessuale?) e appesantito da una marea di dettagli altrettanto superflui (la descrizione dell’appartamento di Frau Kiesel, e che importa sapere che Sveva preferisce lo zucchero e non la panna nel caffè? Certe volte si ha l’impressione, ma non solo in questo libro, che un po’ di righe di testo vengano inserite “per far numero”); lo stile è piattissimo, o peggio fa sfoggio di frasi abusate e retoriche (penso soprattutto alle descrizioni fisiche, con un fiorire di “rughe” sul volto ed espressioni degli occhi che rivelerebbero al primo colpo tutto della personalità di un individuo), e i “personaggi” sono poco più che dispensatori o ricevitori di infodump; qua e là, per fornire un po’ d’ambientazione, è inserito qualche brano che sembra tratto da una guida di Berlino, e in aggiunta ci sono incastrate altri episodi minori, che forse l’autrice ha raccolto in interviste, che però si armonizzano male col resto, come se si fosse voluto metterli a forza per utilizzarli in qualche modo (ad es. il siparietto, inutile anche questo, dell’anziana coppia tornata a Berlino dopo aver vissuto per decenni in America).

Quando il libro, consciamente o meno, “rinuncia” alla pretesa di essere un romanzo, allora diventa più scorrevole, più riuscito: parlo dei brani messi in bocca al personaggio di Frau Kiesel che probabilmente sono trascrizioni fedeli di interviste fatte dalla Schneider, o di pezzi dal carattere apertamente saggistico. Senza più inutili (e malriusciti) distrazioni o orpelli, la semplice forza della tematica e delle testimonianze si impone.

Mi domando perché debba essere sembrato così inconcepibile all’autrice scrivere un bel saggio sull’argomento, documentato e appassionato, o un libro-intervista, invece che tentare di “costruirci su” un romanzo. La piattezza dell’insieme rischia persino (e mi vergogno a dire una cosa simile, vista la tragicità dell’argomento, ma è questo l’effetto che la lettura mi ha provocato) di “banalizzare” le vicende narrate, che risultano annacquate, quasi costruite (e, ripeto, quasi sicuramente non è affatto questo il caso). Paradossalmente, l’espediente di trattare l’argomento in forma narrativa avrebbe dovuto renderlo più coinvolgente ed emozionante, e invece, poiché è realizzato in modo non soddisfacente, risulta persino controproducente.

Helga Schneider, La baracca dei tristi piaceri, voto = 2,5/5

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Le stanze buie

Entrare in possesso di questo libro si è rivelato una mezza impresa! No, niente di epico, mi sono limitata a fare varie ricerche e vari ordini andati a vuoto on line, ma certo per molti mesi risultava esaurito ovunque e, come sempre, visto che il libro che più vorresti leggere è quello che ancora non possiedi, si stava tramutando in una vera e propria “ossessione”.

La “fortuna” di questo romanzo è stata che ne scoprii l’esistenza quando ancora vivevo in uno stato di beatitudine post Quel che resta del giorno: mi sarei buttata a capofitto su qualsiasi libro promettesse di ricordarmi quel capolavoro, e qui le affinità fra le trame erano, a prima vista, significative. Non siamo nell’Inghilterra degli anni cinquanta ma in Piemonte, nel 1864, ma al centro della vicenda c’è sempre un maggiordomo, severo e impeccabile, che pone grande importanza nello svolgere in modo perfetto il proprio lavoro, esattamente sulla falsariga dell’indimenticabile Mr Stevens (ero quasi sicura che l’opera di Ishiguro fosse stata ben presente all’autrice mentre scriveva il romanzo, e infatti ne ho avuto conferma nei Ringraziamenti finali, in cui viene citata fra le fonti di ispirazione).

Tuttavia è un po’ ingiusto far risalire la mia decisione di comprare l’opera prima di Francesca Diotallevi solo alle presunte somiglianze con Quel che resta del giorno, perché Le stanze buie ha potuto contare anche su meriti propri: per quanto cercassi, non trovavo su Internet neppure l’ombra di una recensione negativa, ma anzi quelle presenti erano letteralmente entusiaste, e sottolineavano altresì che è raro trovare una simile qualità in un esordio assoluto.

Insomma, per questi motivi, difficile reperibilità, suggestioni e somiglianze, consenso unanime, quando finalmente ho avuto il libro l’ho iniziato con impazienza e, forse, con un’aspettativa esagerata che probabilmente ha danneggiato l’esperienza di lettura.

Andiamo con ordine. Come detto, siamo nel 1864 e Vittorio Fubini, maggiordomo rispettabile, abituato a servire nelle migliori case di Torino, si trova costretto a lasciare la città per la campagna perché lo zio, scomparso di recente, nel suo testamento l’ha indicato come suo “successore” nella carica di maggiordomo nella villa del conte Flores. Fubini è assai scontento di doversi andare a “rintanare” nelle Langhe, in una casa che, come scopre subito, è ben lontana dagli standard di “civiltà” cui è abituato. Nella villa abitano il conte Amedeo Flores con moglie e figlioletta, oltre naturalmente ai domestici. L’adattamento alla nuova realtà è inizialmente traumatico, tanto più che ben presto Fubini, che si è sempre vantato della sua freddezza e razionalità, comincia ad avere esperienze inquietanti e misteriose, e a credere che il defunto zio avesse un preciso scopo in mente nel volerlo lì, ma non sarà solo questo a metterlo “in crisi”…

Avviso: la recensione che segue contiene alcuni spoiler. I più macroscopici, così come alcuni dettagli sul finale, sono stati nascosti al solito modo (evidenziate il testo per renderli visibili). Tuttavia, per dare un parere motivato qualcosa dovevo pur dire, e non volevo mettere tutto invisibile. Perciò, chi è interessato a questo libro sappia che rivelerò uno sviluppo fondamentale della trama (oh, comunque niente che un bravo lettore non intuisca già a un quarto del romanzo).

Che dire? Che il romanzo funziona solo a metà. Viene abbozzata un’ambientazione interessante per sfruttarla poi in modo limitato e frettoloso (compiti di un maggiordomo, rapporti servitù-padroni e fra i servitori spariscono o quasi a pagina 100 o giù di lì). Uno dei pregi maggiori di Quel che resta del giorno (ormai non posso farci niente, mi viene naturale fare confronti con quel romanzo) era quanto fosse leeeeeeeeeento (e questa lentezza si misurava in termini di anni), il che rendeva benissimo l’immobilismo, l’immutabilità e la rigidità del suo protagonista. Qui, invece, passano, mi pare, tre giorni, e già praticamente la corazza di Fubini si incrina, e purtroppo con il più trito espediente romanzesco: l’amore che ti cambia e ti rende una persona migliore, ma naturalmente l’amore impossibile e clandestino per non altri che la contessa Flores, oltre all’inaspettato affetto per la deliziosa bambina Nora.

Apriamo una parentesi sulla bambina. Ora, io non ho figli, e non è che abbia tanto spesso a che fare con i bambini, però direi che i bambini sono sì fantastici ma, generalmente, possono anche essere una grande rottura di scatole. Nei romanzi, mai. I bambini nei romanzi sono a-do-ra-bi-li, 24 ore su 24. Questo mi fa tornare alla mente un brillante articolo del blog Sudare inchiostro e uno di Piperno su La Lettura… L’unico esempio che ricordi di bambina che sembrava “reale”, e cioè tanto tenera ma che ogni tanto faceva davvero dei ragionamenti balordi senza né capo né coda, stava più che altro zitta, come conveniva a un bambino dell’800 (ma c’è da dire che, qui, Nora Flores viene educata con metodi più “particolari”), e soprattutto quando parlava non aveva sempre sulla punta della lingua frasette dolcissime o piene di significato nella loro innocenza, è Sophie Rackham, e non a caso cito un personaggio tratto dal mio personale esempio di perfezione fatta romanzo (ormai, sarà venuto a noia ai lettori di questo blog).

Ma la bambina fa la sua parte, alla fine: è un personaggio-chiave nella storia, ma in scena non compare poi molto. No, a “uccidere” la seconda metà del romanzo per me (3 giorni per arrivare di slancio a metà, quasi una settimana per riuscire a finirlo, un paio di capitoli alla volta perché, a esagerare, mi veniva il nervoso) è stata la protagonista femminile. Ultimamente mi avevate vista più tollerante verso le storie d’amore nei romanzi, vero? Beh, questo libro mi ha riportato decisamente all’antico sentire. Nella prima parte inizia dunque l’insopportabile flirt tra maggiordomo e padrona, che mi ha spinto a coniare questo slogan: più fantasmi, meno romance. La seconda è un altrettanto insopportabile lagna continua perché non potrà mai funzionare, quale futuro, lei è la padrona e io solo un maggiordomo, fuggiamo insieme, sono incinta. Ah, Mr Stevens, che cosa ne avresti detto tu, di fronte a questa “intollerabile” mancanza di dignità? 🙂 Sono del parere che per far sì che il tuo lettore si convinca della caratterizzazione del tuo personaggio come rigido e inflessibile, ancorato alle sue certezze, ai suoi doveri, al suo senso del “limite”, ai suoi gesti precisi e metodici, non basta che questi ce lo ripeta continuamente, servirebbe anche che agisse come tale per lo spazio di più di due capitoli. Bisognerebbe poi mettere una “moratoria” sul personaggio della “donna anticonvenzionale” nei romanzi storici: quel che dico non pretende di avere valore universale, ma io, nei romanzi storici, non cerco personaggi con cui identificarmi e che rispecchino necessariamente i miei valori, li cerco… beh, storici. Questa poi ha pure “l’aggravante” di far parte della sottocategoria “donna anticonvenzionale che è pure esperta di profumi/cibi/spezie/sapienza antica e ancestrale ecc. perché è tanto in sintonia con la natura”. Niente, purtroppo non salvo niente di questo aspetto che ha finito per acquistare sempre più preponderanza con l’avanzare dei capitoli: fin dai primi accenni non sono mai rimasta persuasa della verosimiglianza di questa grande passione (ma neppure della sua reale “utilità” per la trama, a dire il vero: non poteva, al limite, bastare l’attaccamento per la bambina a causare il cambiamento nel personaggio di Fubini?).

Certo, poi comunque la classica storia di fantasmi nella vecchia e isolata magione, di anime che non trovano pace, di antiche colpe da scontare, conserva tutto il suo fascino (impossibile sbagliarsi, qui): ed è la parte migliore del romanzo, ma è troppo asservita alla soap opera.

E poi che “modi” sono? 🙂 Mi fai leggere dei capitoli riuscitissimi, terrorizzanti e pieni di tensione sul fantasma della villa, e nell’epilogo il fantasma non entra mai in azione? Il romanzo finisce perché il conte dà fuori di testa, così, all’improvviso? E il finale non riserva poi grandi sorprese: Amedeo Flores, che per tutto il romanzo ci è stato presentato come un uomo molto molto malvagio… guarda caso lo è davvero. E va beh, grazie. E perché poi uccide Fosco (personaggio che si sarebbe dovuto approfondire, secondo me), che senso ha?

Quindi, in poche parole: sì bambini posseduti, camere sempre chiuse a chiave in cui però c’è qualcuno o qualcosa, figure vestite di bianco che compaiono improvvisamente davanti agli occhi, anziane cameriere che sanno più di quanto non dicano… no donne che corrono a piedi nudi per i prati e finiscono fra le braccia del protagonista, no gravidanze inaspettate. Sono dispiaciuta perché, accidenti, facevano veramente paura i capitoli sul fantasma! Ma tutto quel miele, non si reggeva. Se la giovane autrice, che ha già avuto la soddisfazione di ricevere tante belle recensioni, è all’ascolto, non se la prenda se questa è un po’ meno positiva delle altre: sono io, che forse sono troppo difficile da accontentare!

Francesca Diotallevi, Le stanze buie, voto = 2,5/5

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Venere privata

Fra gli autori italiani ultimamente impazza il noir: se ci si fa caso, è uno dei generi più frequentati, e anzi ormai bisognerebbe dire “inflazionati”. Venere privata di Scerbanenco è stata allora una ventata di “aria fresca” in un panorama che ormai spesso rischia il “già sentito”. Sì, l’ironia è voluta, perché questo romanzo è uscito nel 1966, a dirla tutta è forse il capostipite del genere.

È anche il primo della serie dedicata a Duca Lamberti, personaggio con un’interessante storia alle spalle: medico, ha praticato l’eutanasia a una paziente in fase terminale, è stato arrestato, processato e condannato a tre anni di carcere, oltre alla radiazione dall’Ordine dei medici. Come si vede, Scerbanenco non aveva paura di affrontare temi caldi, allora come oggi. All’inizio del romanzo, Duca ha scontato la pena e da pochi giorni è un uomo libero, ma nel frattempo ha perso tutto: il padre, un integerrimo “servitore dello Stato”, poliziotto in pensione, per il quale il figlio dottore era un grande motivo d’orgoglio, non ha retto al dolore ed è morto d’infarto poco tempo dopo la sua condanna, la sorella più giovane, rimasta sola, è stata ingannata da un uomo che l’ha sedotta e poi abbandonata incinta. Lorenza, questo il suo nome, e la nipotina Sara sono ora la sua famiglia, e l’unico desiderio di Duca ora è essere dimenticato e trovare un lavoro qualsiasi per mantenerle. Grazie all’intervento di un amico poliziotto, viene assunto da un ricco industriale milanese per un compito delicato e che richiede, appunto, una persona discreta: guarire dall’alcolismo suo figlio Davide, un giovane grande e grosso e in apparenza in perfetta salute, molto timido ma fino a qualche tempo fa normale e intelligente, che, da circa un anno, misteriosamente, è precipitato nel vizio e ora è diventato praticamente un vegetale, sempre ubriaco, istupidito, muto di fronte a ogni richiesta di spiegazioni, indifferente a qualsiasi tentativo di scuoterlo.

Un inizio che non mi aspettavo e che è forse la parte migliore del romanzo, quieto, calmo, così poco “scoppiettante” al confronto dei tanti emuli più recenti, in cui si leggono le riflessioni amare di Duca sul proprio passato, sulla propria “stupidità” per aver voluto seguire coerentemente i propri principî sapendo che non avrebbero mai pagato, i suoi tentativi di penetrare nel “muro di gomma” del silenzio del giovane che gli è stato affidato, ci si interroga su questo oscuro “male di vivere” dell’enigmatico rampollo, la cui solitudine, esattamente un anno prima, si era casualmente incrociata con quella di un’altra persona, la cui storia è narrata in una serie di intensi flashback. Ma ben presto arriva la trama gialla a mettere realmente in moto le cose, ma anche, forse, se posso dirlo, a far perdere un pizzico di fascino a una storia fino ad allora quasi “sospesa” e sussurrata e proprio per questo coinvolgente ed emozionante (solito avviso: per leggere gli spoiler nascosti, evidenziate il testo).

Infatti, più che il “mistero” in sé, che, finché non ci viene detto che effettivamente il suicidio di Alberta (la prostituta “a tempo perso” con cui Davide era stato poco prima che ella morisse, appunto apparentemente suicida, fatto di cui lui si sentiva responsabile: questo il trauma che l’aveva spinto a bere) presenta punti poco chiari, a essere sinceri non si capisce neanche quale sia (io fino ad allora vedevo solo transazioni fra adulti perfettamente consenzienti), è indagato con metodi alquanto inverosimili (diciamo che la polizia lascia fare al protagonista, che, a parte essere un ex carcerato, è un signor nessuno, senza alcuna autorità, un po’ quello che gli pare, l’indagine è cosa sua; inoltre, visto che negli anni sessanta non dovevano esserci ancora molte donne poliziotto, a un certo punto un compito delicatissimo viene affidato alla prima tizia che passava, o quasi) e poi “chiuso” con un bel “trionfo” per i nostri eroi (no, “trionfo” no, se si pensa al prezzo pagato da uno dei personaggi, ma insomma, sembra che in mezz’ora l’intera organizzazione venga sgominata, i romanzi di oggi non hanno più questa fiducia smisurata nella giustizia), sono i piccoli tocchi, le caratterizzazioni dei personaggi principali e di quelli minori, le scenette “di contorno” a rimanere impresse nella memoria: la Milano d’agosto in cui si crepa dal caldo, timide operaie che piegano la testa di fronte ai soprusi delle forze dell’ordine perché non hanno nemmeno coscienza dei loro diritti, distinti ma timidi signori che caricano in macchina le ragazze per un po’ di compagnia, commesse senza arte né parte che si ritrovano, spinte dal bisogno, senza neanche sapere bene come, sulla strada accanto alle “professioniste”, una sorella ingenua sedotta e abbandonata con una figlia illegittima, attaccatissima al fratello e ansiosa, un padre lontano e, si immagina, scarsamente affettuoso ma segretamente ammirato, e della cui morte ci si sente tristemente responsabili, un ragazzone tanto imponente fisicamente quanto fragile emotivamente, ricco e solo, e un genitore sconcertato e preoccupato fino al punto da arrivare a usare la violenza per scuoterlo. Insomma, una ricca umanità che sembra stare a cuore dall’autore.

Con un’eccezione però, a quanto pare. Mezzo voto in meno per la violenza con cui viene tratteggiato il personaggio del fotografo “invertito”: l’autore ce lo descrive attraverso lo sguardo pieno di pregiudizi degli altri personaggi, o sono parole sue? Nel dubbio, io lo punisco (sì, lo so che è un romanzo di cinquant’anni fa, ma sono frasi veramente pesanti), ma se qualcuno mi spiega che c’era da cogliere un’ironia che mi è sfuggita, tanto meglio.

Giorgio Scerbanenco, Venere privata, voto = 3,5/5

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I cani di via Lincoln

Solo pochi giorni fa, recensendo The Deputy di V. Gischler, scrivevo che il noir con tanti morti ammazzati non riusciva più ad appassionarmi come un tempo. Invece, si trattava solo di avere fiducia e trovarne uno che meritava, perché il genere è ancora in grado di darmi belle soddisfazioni.
Di Antonio Pagliaro, autore che ho conosciuto dapprima nelle vesti di “collega” lettore e recensore (suoi molti interessanti, e cattivi quando serve, commenti a vari libri, nei soliti social network dedicati alla lettura, aNobii, Goodreads, e nel suo blog), avevo letto finora solo il più recente lavoro, La notte del gatto nero (2012), che, a dire il vero, non mi aveva entusiasmato: ebbene, sono contenta di non aver completamente chiuso la porta a quest’autore, visto che, come si sarà capito, I cani di via Lincoln (2010) è stato invece una lettura notevole.

Palermo, 2007. Nella “solita” dinamica di lotta/convivenza/connivenza fra Stato e mafia, tra uomini delle forze dell’ordine ben poco “eroici” ma determinati, magistrati stanchi e spaventati ma rigorosi, politici e notabili corrotti, mafiosi e sicari colti nella loro tranquilla vita familiare, viene a inserirsi un elemento inedito che rischia di scompaginare meccanismi collaudatissimi e che toglie certezze a entrambe le parti in gioco: la sempre crescente comunità cinese, con i suoi codici, i suoi rituali, le sue chiusure e, anche, la sua libertà di manovra rispetto alle regole consolidate. Tutto ruota attorno a un ristorante cinese teatro di attività più e meno lecite e ad una strage, di matrice evidentemente mafiosa, che vi viene perpetrata. Da chi e perché? Cosa facevano i cinesi per scatenare quella reazione? E come si organizzerà Cosa Nostra per riparare ai danni fatti e comporre con soddisfazione di tutte le parti un incidente che rischia di avere conseguenze spiacevoli? Data l’intricata maglia di trame e complicità e affari (che l’autore rivela abilmente al lettore non a furia di colpi di scena o di coincidenze fortunose, ma facendola progressivamente dipanare dai suoi protagonisti, il tenente dei Carabinieri Cascioferro, il magistrato Elisa Rubicone, il giornalista Lo Coco, e altri, in un’indagine appassionante ma realisticamente resa), non riesco a farvi un riassunto molto più dettagliato, anche perché in questi casi più cose si svelano, più si rovina la lettura ad altri. Le indagini si impastano, come ho già accennato, con le vite quotidiane dei tanti personaggi, che, per contrasto, rendono tanto più sconvolgenti le improvvise esplosioni di violenza (un appunto però, solo uno: è mai possibile che in questi romanzi le donne siano tutte grandi gnocche?).

Intendiamoci, non è che Pagliaro si inventi grandi novità o rivoluzioni il genere, ma c’è il giusto equilibrio fra tensione e normalità, quasi “banalità”, del male, e “banale” e stanca e pur sempre coraggiosa opposizione delle forze dell’ordine, non ci sono la sufficienza e la ricerca del facile effetto che talvolta si annusano in altri prodotti simili (pensando che basti mettere insieme qualche generica denuncia della corruzione dilagante e qualche brutalità efferata per avere un noir “potente”, “duro”, “coraggioso”, e altri aggettivi che si usano in questi casi).

Se la mia recensione vi ha incuriosito, sappiate che questo romanzo, in versione ebook, si trova in offerta a solo 1,99€ su tutti i principali store digitali, fino al 7 gennaio.

Antonio Pagliaro, I cani di via Lincoln, voto = 4/5
Per acquistarlo on line

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La setta degli angeli

Camilleri, lo dico subito, mi sta antipatico: non mi piacciono le sue idee, non mi piace che faccia uscire un libro nuovo ogni mese, non mi ha mai suscitato il minimo interesse la serie di Montalbano, sia su carta sia sullo schermo, e mi infastidisce la sua interminabile lunghezza. Sono pregiudizi, sì, il famoso “non l’ho letto e non mi piace”.

In effetti però un libro di Camilleri l’ho già letto (o meglio ascoltato, era un audiolibro), Un filo di fumo: anche in quel caso non si trattò proprio di una mia scelta, era un regalo, fatto sta che fu il modo per entrare in contatto con il versante della enorme e straripante produzione dello scrittore che si riferisce ai romanzi di ambientazione storica. Sono gli unici libri di Camilleri per i quali non scatta subito l’avversione di cui sopra: per questi, l’interesse che talvolta mi suscita l’intreccio (sono spesso rielaborazioni di fatti realmente avvenuti ed eccezionali e bizzarri ma ormai quasi dimenticati, tratti dalla storia locale siciliana, come ad esempio Il re di Girgenti) si scontra col rifiuto a prescindere: raramente il primo prevale (ci sono molti libri che dovrò leggere nella mia vita prima di arrivare a quelli di Camilleri), ma è successo con questo La setta degli angeli, che da tempo avevo messo “in osservazione”.

Sì, perché, appunto, Camilleri riesce a scovare episodi oscuri e affascinanti per cui la tentazione di saperne di più è potente. Qui siamo nel 1901, a Palizzolo, paesino siciliano dominato dalla solita “cricca” di nobilume e pretume. Alcune fra le famiglie più in vista sono alle prese con un segreto scottante: le loro figlie, giovani serie e devote, assidue frequentatrici delle varie parrocchie del posto, si ritrovano misteriosamente incinte e si rifiutano di rivelare gli autori del “misfatto”. La voce, per soffocare la quale si ingenera nel frattempo una serie di equivoci e di conseguenze impreviste, giunge all’orecchio dell’avvocato Matteo Teresi, noto socialista e “mangiapreti”, che inizia a indagare e scopre una verità sconcertante: tutti i parroci del paese, tranne uno, sono colpevoli di aver ingannato e plagiato, approfittando della loro autorità di uomini di Chiesa, le giovani, rendendole docilmente consenzienti a pratiche erotiche spacciate per penitenze ed esorcismi contro le tentazioni. Teresi denuncia senza paura lo scandalo dalle colonne del giornale che dirige, per un breve periodo viene celebrato come un paladino della giustizia ma poi, ben presto, interviene “l’onda lunga” del riflusso, della connivenza e della convenienza dei potenti a rendere del tutto vano il suo operato.

L’interesse dell’autore risiede chiaramente non tanto nella vicenda in sé, quanto nelle reazioni (o non-reazioni, ed è questa l’amara constatazione, che in Sicilia, ma più in generale in Italia, si assiste sempre all’eterno ritorno dell’uguale, agli scoppi di indignazione temporanei ed effimeri dopo i quali i colpevoli ne escono praticamente impuniti, mentre le persone oneste e coraggiose vengono abbandonate a se stesse) che essa suscita: infatti l’accenno di “giallo” è ben misero (e d’altra parte si sa già tutto fin dalla quarta di copertina dell’editore), i preti stupratori e le loro vittime contano ben poco (l’unica figura a emergere vagamente è la sventurata Rosalia), non c’è alcuna indagine psicologica nelle loro motivazioni o ossessioni. Non si può considerare una “mancanza” del romanzo perché, appunto, è chiaro fin da subito che non è questo ciò di cui vuol parlare Camilleri, casomai è stato un motivo di delusione per me che, invece, avrei gradito sapere di più su questi aspetti.

La prima metà del romanzo ha i toni della farsa: equivoci, umorismo un po’ scollacciato o facilone (penso alla scena del sigaro acceso che fa andare a fuoco i pantaloni di don Anselmo Buttafava), personaggi perennemente esagitati e macchiettistici (come vogliono, d’altra parte, le convenzioni del genere), il tutto accentuato dal solito uso della lingua con l’originale impasto di italiano e dialetto. Nella seconda parte i toni diventano rapidamente più cupi e pessimistici, in linea con la crudele parabola del protagonista. Se non ricordo male, era questo anche il percorso del mio unico precedente, Un filo di fumo, con l’ironia che lasciava comunque un certo amaro in bocca. Insomma, poche sorprese.
Il problema è che, avendo insistito fin troppo sul pedale della farsa nella prima parte, l’autore non è riuscito, per quanto mi riguarda, a rendere convincente e coinvolgente la seconda, più tragica. L’apparente trionfo e poi il subitaneo svanire di tutte le speranze del protagonista, di fronte all’isolamento e alla crescente ostilità di quei concittadini per i quali aveva lottato, mi hanno lasciato fredda, perché il personaggio non aveva mai assunto, in precedenza, la statura “eroica” che si presupponeva. Probabilmente era proprio l’intento dell’autore non farne un “santino” irrealistico, ma troppo grande era la distanza fra la caratterizzazione che ne veniva sbandierata e come veniva fatto muovere sulla scena (ad esempio, l’insistenza sul fatto che fosse noto come “l’avvocato dei poveri”: sì, viene detto e ripetuto spesso, ma è un’etichetta che non si traduce mai in azioni concrete). Ne è uscita fuori una figura poco definita e poco credibile, che non rende giustizia a quella storica e di cui, in fin dei conti, non si capiscono le motivazioni che portano a compiere quest’atto coraggioso. Il risultato insomma è stato che la farsa non mi ha fatto ridere, e la denuncia non mi ha smosso più di tanto… e le vicende storiche che erano state, per me, la molla che mi aveva spinto alla lettura non vengono indagate molto a fondo. Un libro non brutto, ma senza infamia e senza lode.

Il romanzo, come detto, trae spunto da un fatto di cronaca realmente avvenuto che travalicò i confini dell’Isola e, per qualche giorno, comparve sui giornali nazionali (tanto da giungere alle orecchie di don Luigi Sturzo, che scrisse un commento indignato contro quei preti indegni sul quotidiano “Il Sole del Mezzogiorno”), ma, come si legge in una Nota finale, trasformato poi dalla fantasia dell’autore: il paese reale si chiama Alia (provincia di Palermo) e non Palizzolo, i nomi dei personaggi coinvolti, tranne quello del protagonista Matteo Teresi (mantenuto tale e quale per rendergli omaggio: di lui ho trovato in rete queste notizie biografiche), sono cambiati, e senz’altro ci saranno stati altri abbellimenti, esagerazioni o invenzioni, come è naturale e come è correttamente precisato.

Andrea Camilleri, La setta degli angeli, voto = 3/5
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Amore e ginnastica

De Amicis è uno di quegli autori che hanno avuto la sfortuna di vedere la propria memoria “inchiodata” a un unico libro, ovviamente Cuore, per di più generalmente snobbato e spernacchiato da tutti i lettori “di un certo livello” (io non l’ho letto, ne sento parlare sempre e solo male, magari a me piacerebbe tantissimo, non so). Invece, come ricorda anche Luca Scarlini nell’introduzione a questo volumetto, scrisse un po’ di tutto, fra cui reportage di viaggio che sembrano interessanti, come quello dedicato a Costantinopoli.
Fra la sua produzione dimenticata c’è anche un libro uscito nel 1892, Tra scuola e casa, di cui fa parte il “racconto lungo” Amore e ginnastica, che testimonia di un’altra passione dell’autore, quella appunto per lo sport e l’insegnamento dell’educazione fisica.

In un condominio di Torino, il timidissimo e impacciatissimo Simone Celzani, dall’aspetto insignificante e mingherlino, è innamorato pazzo della sua vicina di casa, la maestra di ginnastica Maria Pedani, il cui fisico atletico popola ossessivamente le sue fantasie erotiche. Purtroppo la Pedani, una specie di “valchiria” possente e quasi mascolina, non lo guarda nemmeno, perché ha un’unica passione/missione in testa: la ginnastica, appunto, che non solo pratica con assiduità, ma su cui ha anche una saldissima preparazione teorica e che soprattutto propaganda con fervore per giovani e adulti, ragazzi e ragazze, con una mentalità quasi da “crociata”. Tutti i patetici tentativi del Celzani per far breccia nel suo cuore falliscono miseramente, ingenerando invece una serie di equivoci e malintesi con gli altri abitanti del palazzo, la coinquilina della Pedani, invidiosa della sua popolarità fra gli uomini, il maestro Fassi, anch’egli fanatico sportivo, il giovanotto Ginoni, che ha messo anch’egli gli occhi sulla signorina, lo zio del protagonista, che da vecchio “guardone” è un grande ammiratore della ginnastica femminile, ma per motivi non proprio “salutistici”, e altre macchiette rese con garbata ironia, tutte prese nel vortice di questa nuova “mania collettiva” per l’educazione fisica.

Al di là degli aspetti più da “commedia all’italiana” ante litteram, il testo non manca infine di un certo interesse anche storico-sociale, come fonte per la diffusione delle pratiche sportive nell’Italia unita, per la considerazione o la ostinata diffidenza con cui veniva vista l’educazione fisica, la sua introduzione nella scuola (tema che evidentemente era molto caro a De Amicis) e la crescente attenzione, da parte degli educatori più “illuminati”, per la salute del corpo, specialmente delle giovani generazioni (il tono del racconto è sempre leggero, ma non mancano accenni a problemi reali, come quando la Pedani nei suoi discorsi parla delle sue alunne malate di rachitismo), le diverse scuole di pensiero di ginnasti celebri che si fronteggiavano.

Insomma, niente più che una curiosità, ma gradevole: la storiella, di lettura veloce, è abbastanza audace e presenta un lato poco noto del suo autore, capace di intrattenere e divertire (e forse anche “scandalizzare” un po’ il pubblico dell’epoca) per qualche oretta.

Edmondo De Amicis, Amore e ginnastica, voto = 3/5
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Principessa

Cosa si può leggere dopo un libro bellissimo e tristissimo come Quel che resta del giorno? Possibilmente uno che ti tiri un po’ su; sfortunatamente, ispezionando la libreria mi sono accorta che è un po’ carente di titoli allegri, perciò alla fine mi sono ritrovata fra le mani questo, arrivato fresco fresco, che mi incuriosiva molto, ma che tanto leggero e divertente proprio non è. Se non altro è di un genere totalmente diverso, per cui era almeno al riparo da impietosi confronti.

Di Principessa, di Gianfranco Calligarich, che proprio non conoscevo, lessi una recensione su “La Lettura” del 30 giugno 2013, e rimasi incuriosita dalla promessa di questo strano “ibrido” fra noir e rosa, per di più, bonus per me, in chiave omosessuale. Qualsiasi cosa che prometta di “rischiare” un po’ con i generi e le aspettative del pubblico mi suona bene.

La trama (anche se si può leggere anche dall’articolo sopra citato, senza rischio di eccessive anticipazioni). La voce narrante è un anonimo corriere della droga che da Dortmund si reca a Milano per consegnare della merce; qualcosa va storto ed egli, tra l’altro anche nei guai con degli strozzini a causa di debiti di gioco, riceve dal suo contatto il consiglio di starsene per un po’ tranquillo e nascosto, alloggiando in una stanza presa in subaffitto. Il tipo con cui si trova a dividere l’appartamento è un impiegato dalle abitudini assai regolari, riservatissimo, un po’ effeminato, amante dei vecchi film in bianco e nero e appassionato di oroscopi, con una madre tirannica alla Psyco che abita qualche piano più in su nello stesso palazzo e, soprattutto, un secondo lavoro: ogni notte, come il protagonista scopre incontrandolo per caso in ascensore, si trasforma in “Principessa”, un travestito. Ingolosito dalla possibilità che nella stanza di Principessa, sempre chiusa a chiave, possano trovarsi gli ingenti guadagni dell’attività notturna, il protagonista inizia allora una tattica per conquistarsi la fiducia del silenzioso, solitario ed enigmatico compagno d’appartamento, sedurlo e introdursi finalmente nella mitica “camera del tesoro”. Mentre Principessa soccombe al suo fascino abbastanza presto, non è altrettanto facile convincerlo ad abbassare la guardia, e contemporaneamente anche il protagonista comincia, suo malgrado, a essere intrigato dai comportamenti talvolta sconvolgenti e sempre “teatrali” del suo amante.

L’autore, per qualche motivo, ha un’avversione per i verbi e, al contrario, un amore smodato per l’anafora, perciò costruisce molte frasi in questo modo: “A tutti gli effetti non anonima come le solite camere d’affitto, la stanza” (p. 21), “Quello la sera il mio rientro al nido. Televisivo e inospitale” (p. 31), “Così le cose nel silenzio notturno dell’androne” (p. 36) “Perché nove probabilità su dieci, che nel nido potesse esserci un malloppo” (p. 37), “Problema da non sottovalutare, l’apertura della stanza” (ibidem), e via così. Lette anche varie volte nella stessa pagina, alla lunga risultano insopportabili: questo vezzo l’ho trovato irritante al massimo grado (è proprio una delle caratteristiche del libro che, nell’ultimo paragrafo della recensione, Ermanno Paccagnini loda di più, invece!) e non ho capito cosa cercasse di comunicare, forse un certo modo “spiccio” e brusco di parlare e pensare della voce narrante. Fatto sta che lo stile di questo libro è assolutamente respingente e fastidioso (forse, in fin dei conti, un certo confronto con quello elegante e dispiegato di Ishiguro l’ha subìto), sembra di leggere una serie di telegrammi, ma la trama “tira”, per cui si arriva in fondo.

Abbastanza fuori luogo, tanto da sembrarmi quasi incomprensibili, le digressioni in cui compaiono personaggi minori e macchiette come Santini e l’Ingegnere. A essere sincera, poi, non ho capito perché sia stato necessario inventarsi l’antefatto del corriere della droga rimasto bloccato a Milano, e il protagonista non potesse semplicemente essere un tizio qualunque, magari un disoccupato malato di Bingo o videopoker, che poteva ugualmente giustificarne l’avidità e il fatto che restava a casa tutto il giorno senza nulla da fare. In conclusione, se qualcuno volesse ri-scrivere la stessa storia in modo totalmente diverso, sarei felice di ri-comprare il libro.

Gianfranco Calligarich, Principessa, voto = 3/5
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Le api randage

Probabilmente l’ho già citato più e più volte, ma lo ribadisco: se devo indicare qualche titolo di libro che negli anni recenti ho amato alla follia, non manca mai La città perfetta di Angelo Petrella. Un volumone di 500 pagine che, se non ricordo male, presi in mano domenica 5 ottobre 2008 alle 14 e non riuscii a posare fino a che non ne ebbi girata l’ultima pagina, verso le 5 del mattino seguente.

Perciò quando, all’inizio di questo mese, aggirandomi pigramente in libreria senza l’intenzione di comprare nulla in particolare, ho visto casualmente questo nome sulla copertina di un libro posato in bella mostra su uno scaffale, non c’è stato tanto da riflettere: il nuovo romanzo di Petrella (che è del 2012, all’epoca mi era completamente sfuggito e magari correvo il rischio di non scoprirlo mai!) lo dovevo avere, senza se e senza ma. L’ho iniziato due giorni fa, di pomeriggio, curiosa anche di vedere se si ripeteva il “miracolo” della “sospensione del tempo” verificatosi col suo predecessore…

Diciamolo subito: no. Le api randage non è altrettanto bello e, inutile negarlo, un pizzico di delusione c’è, ma certo anch’io avevo aspettative altissime; e invece può esserci una sola Città perfetta. È sempre interessante l’intreccio fra camorra, affari e politica che Petrella riesce a creare e dipanare, ma qui tutto è più caricato e melodrammatico, “sensazionalistico” e “d’effetto”, a partire dai dialoghi, davvero poco credibili (chi mai, per rispondere “sì”, dice “quant’è vero che mi chiamo Matteo Malatesta!”?), per passare alla ricca famiglia dilaniata da rancori e conflitti, alla mania degli oggetti caricati di simbolismo (dall’orologio al rosario, dalla pietra lunare alla fotografia), fino alla morte “spettacolare” ed “esemplare” del cattivo, che fa molto telenovela.

Piccola curiosità: la mia copia è di seconda mano, e il precedente lettore ha fatto alcune sottolineature e annotazioni a margine a matita nella prima parte. Le sottolineature erano un mistero, per me erano frasi assolutamente insignificanti, perciò a un certo punto al piacere della lettura si è affiancato quello di capirne il motivo. Quanto alle annotazioni, il libro non deve essergli piaciuto molto, poiché ho trovato scritto “assurdo”, “perché?”, “boh!”, e via così. Non mi ha dato fastidio, anzi, è stato divertente scovare questi “ammonimenti” (ad es. cercavo di capire, “hmm, perché questo pezzo lo trova assurdo?”). Poi deve aver definitivamente abbandonato il libro, perché la seconda metà è intonsa!

Insomma, man mano che andavo avanti la delusione aumentava! Peccato…

Angelo Petrella, Le api randage, voto = 3/5
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Tentativi di botanica degli affetti

Questo libro, visto per la prima volta sul sito della casa editrice Bompiani, mi aveva subito respinto per il titolo per me ben poco accattivante: “Tentativi di botanica degli affetti” mi faceva pensare a una cosa o incomprensibile o di una noia mortale. Questo giudizio è stato completamente ribaltato quando, sul supplemento del Corriere della Sera “La Lettura” del 10 febbraio 2013*, ho scoperto che la vicenda del romanzo si svolge a casa Manzoni: casa Manzoni??? Lo compro subito!

In effetti è e non è casa Manzoni; alcuni nomi sono cambiati, ma in modo trasparente: c’è don Titta (Alessandro), poeta di fama che è al lavoro su un grande romanzo, personaggio complesso, a volte indecifrabile, che ha scoperto la fede dopo una gioventù scapestrata e lontano dalla madre, donna Clara (Giulia), anche lei ai suoi tempi stella dei salotti parigini e ora ingombrante e dispotica “matrona”, c’è la dolce moglie Julie (Enrichetta), delicata e spesso malata, ci sono i bambini Giulietta, Pietro, Enrico (nomi rimasti invariati di tre dei figli di Manzoni), Franceschina e Matilde (vista la cronologia del romanzo, dovremmo essere all’incirca negli anni ’20 dell’Ottocento, dovrebbero essere le alias di Cristina e Sofia, anche se la scelta del nome Matilde, come l’ultimogenita dello scrittore, è significativa; ma queste due bambine più piccole e meno tratteggiate sono probabilmente figure di pura fantasia). Tutti ora conducono una vita ritirata e fin troppo tranquilla nella villa di Brusuglio, nella campagna del milanese. Da questo scenario aderente alla realtà storica si muove l’autrice per aggiungere dettagli e sviluppi di sua invenzione, romanzeschi. Quindi ci sono anche un istitutore inglese, Innes, un giovane poeta amico di famiglia, Tommaso Reda (che forse è Tommaso Grossi), un antipatico esponente della vecchia nobiltà, il “contino” Bernocchi, quasi una parodia del damerino settecentesco (io “tifo” sempre per questi personaggi presentati in modo tale da risultare decisamente ed evidentemente sgradevoli al lettore: spero sempre che l’autore abbia un guizzo di originalità e che dietro l’aspetto fisico non avvenente e l’antipatia di superficie di queste figure riveli sorprese inaspettate; non dirò se è il caso di questo personaggio), e soprattutto una nuova arrivata, la giovane Bianca. Il pretesto che spiega la presenza di quest’ultima, il classico outsider attraverso i cui occhi il lettore esplora la scena, è un po’ tenue (la ragazza è una pittrice in erba e il poeta, botanico e giardiniere dilettante, la ingaggia perché… disegni tutti i fiori del suo giardino; per fare questo deve rimanere ospite della famiglia per circa un anno. Mah! All’epoca si aveva proprio un senso dell’ospitalità smisurato!), ma è anche quello che dovrebbe rendere ragione del titolo: Bianca infatti, curiosa e intelligente, si mette a “studiare” non solo i fiori e le piante, ma anche le complesse dinamiche degli affetti e delle relazioni all’interno di questa famiglia così gelosa della propria privacy e impenetrabile agli sguardi degli estranei.

C’è anche un “mistero”: della servitù fa parte anche una ragazzina quattordicenne, Pia, simpatica, solare e allegra, che in effetti gode di “privilegi” inusuali per una domestica e sembra quasi di famiglia. Bianca, probabilmente perché non ha molto da fare, non può esimersi dal ficcare il naso anche in questa faccenda, e arriva a una sconcertante conclusione (segue spoiler, evidenziare): e se quella ragazzina fosse una figlia illegittima del nostro buon don Titta, concepita negli anni di “libertinaggio” prima di raggiungere la madre a Parigi? La madre è niente meno che Costanza A[rconati]! Non è stata la fonte di ispirazione per questo romanzo (lo si apprende dall’Appendice), ma a me la vicenda ha richiamato alla mente un vecchio articolo letto sul Corriere della Sera, con quegli aneddoti di poca rilevanza ma gustosi su queste grandi figure della nostra letteratura. In realtà però non è che il libro si regga tutto su questa storia, che alla fine viene anche lasciata un po’ cadere e che l’autrice stessa riconosce non essere del tutto verosimile, per come viene narrata. Molto spazio è dato anche alla crescita, artistica, professionale, sentimentale, di Bianca, ai suoi tentativi di farsi strada da sola nel mondo e nella vita, e mai abbastanza a questi piccoli quadretti di vita domestica, fragile e misteriosa. Mi aspettavo che si parlasse più del “romanzo”, e invece a interessare è soprattutto l’aiuto discreto dato da don Titta/Manzoni e da Innes alla causa antiaustriaca, fra le preoccupazioni di donna Clara/Giulia, che vorrebbe tanto che il figlio si rimettesse a scrivere innocue e più remunerative poesie. Anche la questione della conversione, della fede di Manzoni è solo accennata; adesso che ci penso, la “fastidiosa” Bianca occupa fin troppo la scena, per i miei gusti! Curiosa critica da muovere alla protagonista di un romanzo! Ma, purtroppo per lei, doveva competere con figure ben più interessanti, ai miei occhi.

Peccato per la conclusione da romanzo d’appendice (mi piaceva l’inconfessabile attrazione che la giovane cominciava a provare per Titta/Manzoni, ma il “balletto” di uomini attorno alla protagonista e la gravidanza indesiderata non mi hanno convinto; e il teschio con cui giocano Pietro ed Enrico che diavolo significa?) e il finale un po’ sdolcinato (della serie “una nuova vita, un nuovo inizio”), in cui in fretta e furia Bianca fa i bagagli e le porte della villa di Brusuglio si richiudono bruscamente senza averci dato modo di prendere congedo adeguatamente dal Poeta e dalla sua famiglia.

Beatrice Masini, Tentativi di botanica degli affetti, voto = 3,5/5
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* Attenzione, non leggete quell’articolo (il primo, in quella pagina web), o almeno non leggetelo fino in fondo (fermatevi prima dell’inizio dell’ultima colonna), se vi interessa il romanzo: il giornalista rivela una parte importante del finale. Io me ne sono accorta proprio nello scrivere questo post! Tra l’altro, guardate anche il secondo pezzo, in cui, in mezzo ad altre inesattezze (“i colori dei fiori immortalati da Bianca, che anticipano … quelli di Van Gogh”, quando invece la ragazza disegnava a carboncino), incredibilmente don Titta viene definito “innegabile alter ego di Foscolo”. Foscolo?? Foscolo??

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