Borges è uno dei tanti grandi autori che, fino a ieri, dovevo confessare di non aver mai letto; ma lo avrei fatto, prima o poi, in particolare la sua opera Finzioni è da anni e anni uno dei libri che affronterò “prima di morire”, come si dice. Il fatto che venisse proposta da un utente questa sua Storia universale dell’infamia nel “Pozzo letterario” di giugno ha fatto sì che il mio incontro con questo maestro venisse anticipato, e forse per la prima volta sto interpretando lo spirito “autentico” di questa iniziativa: non scegliendo cioè libri che pensavo già di leggere (era successo ad esempio con Il potere del cane, o Il Circolo Dante), ma “rischiando” e scoprendone uno totalmente nuovo, che altrimenti mi sarebbe sfuggito.
In questa operetta sono raccolti alcuni racconti scritti fra il 1934 e il 1935 e usciti originariamente a puntate sul supplemento di un quotidiano argentino: documentandosi su fonti varie ma poi lasciando libero sfogo alla sua fantasia, l’autore narra in brevi flash o scene alcune vite di infami criminali o folli. Non mi sento mai a mio agio nel commentare i classici o i “mostri sacri”, come, in questo caso, Borges: mi mancano gli strumenti e l’attenzione per cogliere certe sottigliezze e al massimo vengono fuori considerazioni un po’ banali e superficiali. Però mi piace farmi raccontare storie e farmi trasportare altrove, e in questo senso posso dire che dalla lettura di questo libretto trovo conferma a quanto associavo nella mia mente, tra nozioni apprese qua e là, alla figura di questo autore. E quindi, dal vecchio West al Giappone dei samurai, dalle atmosfere alla Mille e una notte alla Parigi del XIX secolo, in una serie di brevissimi racconti, eccoci balenare davanti vite avventurose di personaggi più o meno oscuri, crudeltà ed efferatezze ed episodi incredibili e leggendari e “magici”, narrati con pungente ironia (fin dal titolo, volutamente “barocco” e pomposo, come dice lo stesso Borges).
Una riflessione che forse non c’entra nulla, ma che mi è venuta in mente mentre leggevo: proprio qualche giorno fa in un’analisi dei primi capitoli del bestseller del momento, Inferno di Dan Brown, veniva evidenziato l’uso oltremodo sciatto e sgangherato del linguaggio, con una ricerca dell’“effetto” talmente insistita da risultare, alla fine, inefficace e vacua proprio per la sua ripetitività. Qui, invece, nonostante Fruttero&Lucentini nell’introduzione si affannino curiosamente a “demolire” quest’operetta giovanile e a dire che siamo ben lontani dalle vette successive della prosa di Borges, io, che queste vette non le conosco (ancora), ho potuto apprezzare il linguaggio sempre creativo e “musicale” come quello che forse cerca di imitare, della grande tradizione delle fiabe orientali o delle leggende dei santi (qui si tratta naturalmente di santi “al contrario”, di figuri celebri per la propria condotta infame), e il tutto ottenuto senza alcuno sforzo apparente, come appunto il talento riesce a fare. Beh, che dire, buon per me, che sono partita proprio dal suo “peggio” e con Borges non posso far altro che migliorare.
Piccola informazione interessante: la prima di queste “vite infami”, Lo spaventoso redentore Lazarus Morell, narra la stessa vicenda al centro de La lingua di Canaan (là i nomi venivano leggermente cambiati, Lazarus Morell diventava Thadeus Morelle, ecc.), ma in modo più comprensibile (quel romanzo era talmente astruso che non ci ho capito nulla).
E ho finito la mia serie di “banalità” su Borges!
Jorge Luis Borges, Storia universale dell’infamia (trad. Mario Pasi), voto = 4/5
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