Mentre ci sono libri che vedono trascorrere anni e anni dal momento in cui ne sento parlare per la prima volta a quello in cui sono finalmente letti, ci sono quelli che vanno in “corsia preferenziale” e, per motivi imperscrutabili, vengono notati, individuati, reperiti, letti e recensiti in fretta e furia. Come questo.
Siamo nel 1699, in Romagna (lo si intuisce, anche se il luogo non è mai specificato con precisione). Stanno per giungere al termine i colossali lavori per smantellare e ricostruire un’intera città da una zona più interna, paludosa e malsana, a una più vicina al mare; nel vecchio sito abbandonato rimarrà in piedi solo l’antica Cattedrale, che accoglierà nella sua cripta anche i resti dei defunti, che non verranno traslati. Il protagonista, Luigi Derigo, si occupa di sovrintendere i lavori, ma, sfortunatamente per lui, viene a sapere un segreto che doveva rimanere tale, perciò viene assalito, picchiato, ridotto quasi in fin di vita e rinchiuso nella cripta piena di cadaveri. L’intera premessa non è molto credibile, ma si capisce che non è la ricerca della verosimiglianza o del realismo lo scopo dell’autore.
La parte di me che ancora subisce la fascinazione dei luoghi comuni del gotico e del macabro è stata subito attirata dalla sinistra immagine del “sepolto vivo” (un cliché che sarà stato sfruttato in lungo e in largo da molti, a me però su due piedi vengono in mente solo Poe e un “romanzaccio” d’appendice di Marie Corelli, Vendetta!). D’altra parte Eraldo Baldini è un autore che, a quanto vedo, ama sfruttare gli stilemi del gotico e dell’orrore, calandoli magari in contesti inusuali, come questo della campagna italiana, e fondendoli a inquietudini e incubi di sapore più “moderno”. A questa situazione estrema sono però dedicate poche pagine della storia, ben presto il protagonista riesce a uscire dalla cripta, aiutato da una vecchia fattucchiera, altra figura “tipica” del genere, stavolta però decisamente positiva.
Da questo momento in poi il breve romanzo abbandona i toni gotici alla Poe e si avvicina al Conte di Montecristo di Dumas, col protagonista ridotto ormai a outcast, ormai per sempre escluso dalla società dei suoi simili e progressivamente sempre più dimentico della sua vita passata, che, giorno dopo giorno, con pazienza, trama vendetta contro i suoi nemici, e per certi versi a Jekyll e Hyde di Stevenson, con la personalità dell’alter ego, battezzato “Faccia di Sale” per via del volto sfigurato, che poco a poco prende il sopravvento su quella di Luigi Derigo. È una vicenda che non riserva grandi sorprese (l’unica svolta imprevista viene subito “neutralizzata” dall’autore, che non ha il “coraggio” di spingere la caduta morale del suo protagonista fino in fondo, a un punto dal quale per il lettore sarebbe stato difficile continuare a “parteggiare” per lui) ma che si lascia seguire, tanto è vero che la lettura del breve libro è rapidissima (iniziato e finito in una mattina).
Per l’autore certo non era fondamentale ricostruire con precisione assoluta il contesto storico né soprattutto dare una patina di “antico” al linguaggio (anche se la narrazione è in prima persona, quindi, in teoria, è un uomo del XVII secolo a parlare), che infatti al mio orecchio suonava talvolta stonato, inappropriato, nella scelta dei termini (per es. a pagina 111 leggiamo “menefreghismo”) e nel tono, colloquiale se non addirittura in alcuni punti quasi da commedia (negli scambi di battute fra Luigi e la zi’ Pachina, la strega sua alleata, persino nei primi momenti in cui la vecchia lo tira fuori dalla cripta).
Eraldo Baldini, Faccia di Sale, voto = 2,5/5