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Breve storia di (quasi) tutto

Questo libro è stato scelto come “lettura di gruppo” per testi non narrativi dalla comunità di Goodreads Italia: un’occasione per leggere di argomenti (astronomia, geologia, biologia, zoologia, paleontologia e altre scienze) che di solito non affronto mai.

Sì, perché la premessa dell’autore è proprio che “l’uomo della strada” sa in effetti proprio poco di… tutto quello che lo circonda, a dire il vero (da cui il titolo), il pianeta su cui vive, l’aria che respira, il terreno su cui poggia i piedi, e l’interno del suo corpo

Secondo una progressione logica, quindi, si parte… beh, dall’inizio di tutto, quando prima non c’era niente, dall’origine dell’Universo, poi ci si concentra sul nostro pianeta, del quale si passano in rassegna la storia e le caratteristiche. Si parla di ciò che compone tutto ciò che siamo e vediamo, gli atomi e le strutture che li compongono, e arriva poi il turno degli esseri viventi, dalla primissima comparsa della vita sulla Terra, alle molteplici specie che si sono succedute, per approfondire poi l’Homo sapiens e i suoi antenati.

Chiaramente, nonostante il simpatico titolo, il libro non pretende affatto di spiegare tutto, tanto è vero che talvolta l’autore “alza le mani” dicendo “questo è davvero troppo complicato, ci basti sapere che … eccetera”. Io l’ho interpretato nel senso che lo scopo è suscitare quanto meno curiosità verso materie e argomenti che al profano arrivano in modo confuso (e, spesso, vengono fraintesi), fare una prima piccola introduzione e se non altro aprirci gli occhi su un universo che probabilmente a malapena immaginavamo. Fare divulgazione non deve essere facile e, per quanto mi riguarda, in genere sono diffidente quando un autore cerca a tutti i costi di “abbassare” una materia per un pubblico di non esperti, temo sempre che esageri nel fare “il simpatico” (è un po’ il motivo per cui, pur trovando l’argomento interessante e originale, mi ha parzialmente deluso Stecchiti): qui invece il tono dell’autore si mantiene gradevole senza cercare per forza di strappare la risata (che alla lunga può anche distrarre)

Vi sono alcuni temi ricorrenti (e, in taluni casi, abbastanza sorprendenti rispetto all’opinione comune): tanto per cominciare, che questo tutto che ci viene svelato… è davvero poca cosa! Sì, leggendo scopriamo quanto poco (pochissimo!) in realtà sappiamo su un sacco di cose. E questo poco spesso è anche dubbio o controverso (o quasi… assurdo, tanto da sembrare fondamentalmente “impossibile”, ad es. nella fisica degli atomi, che spesso sembra contraddire nozioni ormai acquisite). Un altro concetto che ho ricavato è l’abilità degli scienziati di ricomporre e mettere insieme dati apparentemente disparati per arrivare all’obiettivo, cioè (per dirlo meglio) la loro capacità di trovare strade e mezzi inconsueti (quando ad es. manca la possibilità più diretta della via sperimentale) per calcolare qualcosa. Infine, il libro sottolinea spesso quanto la nostra tradizionale convinzione di essere “il vertice dell’evoluzione”, o “i padroni del creato” sia, tutto sommato, ridicola, se si guardano le cose da un’altra prospettiva: tutta la storia dell’uomo, dal momento della sua prima comparsa a oggi, è un battito di ciglia al confronto della storia della Terra, senza scomodare l’Universo intero. La nostra stessa esistenza sembra il frutto di tante, fortunatissime coincidenze più che di un disegno prestabilito, ed è a tutti gli effetti appesa a un filo: un cambiamento climatico anche minimo, un cataclisma che, nella storia del nostro pianeta, non sarebbe un evento nemmeno troppo raro (in fin dei conti se ne sono avuti a iosa in questi quattro miliardi di anni, anzi, è da un bel po’ che stiamo, stranamente, fin troppo tranquilli, dice Bryson, in confronto a quel che il pianeta ha passato), e l’umanità andrebbe a raggiungere le tantissime altre specie che nel corso del tempo hanno prosperato (spesso per tempi incommensurabilmente più lunghi di quello che finora ha visto in scena l’uomo) e che poi, semplicemente, si sono estinte. Senza contare che esistono moltissimi altri esseri viventi che, considerati obiettivamente, dal punto di vista della pura e semplice “funzionalità” alla vita (all’esistenza), non hanno niente da invidiarci: sono ben più antichi, decisamente più resistenti, più longevi e infinitamente più numerosi di noi (microrganismi, batteri, esseri unicellulari ecc.).

Insomma, il punto di forza di questo libro è secondo me il grande senso di meraviglia che sa suscitare, un’impressione di nuove e inimmaginate prospettive: tutto ciò è rafforzato dall’empatia che l’autore riesce a instaurare con il lettore, dato che, più che farci da guida, sembra che egli stia facendo queste scoperte insieme a noi. Per questo, non guastano affatto le spiegazioni molto “terra terra”, anche in termini “ingenui”, facendo paragoni fantasiosi o buffi (penso ad es. a quando Bryson tenta di dare l’idea di dimensioni, distanze, ecc. per noi difficilmente concepibili nella loro grandezza o piccolezza), e però efficaci. Un po’ più debole mi è sembrata la parte centrale, in cui si dà troppo spazio alle (dis)avventure degli scienziati, che talvolta sono anche curiose, divertenti o interessanti, ma l’aneddotica serve a poco nella prospettiva dell’opera. È vero che così rende più “umane” figure di “mostri sacri” come Newton & co., ma d’altra parte la figura del “genio eccentrico” e un po’ “mattacchione” fa talmente parte del “senso comune” che neanche stupisce più di tanto leggere di certe stranezze. Anche perché, francamente, come storico della scienza Bryson fa sentire di più il suo (mai nascosto, per la verità) status di appassionato dilettante, e alla lunga questa galleria diventa poco significativa, i nomi si succedono e si confondono.

Avventurarsi al di fuori delle letture consuete, quindi, stavolta ha pagato. Ho anche scoperto un autore che, sebbene l’avessi visto citato qua e là, non avevo mai affrontato. Compatibilmente con la lista dei “da leggere” che si allunga sempre di più, penso che lo riprenderò in mano (quando, non si sa), stavolta magari con libri con argomenti più nelle mie corde, penso ad es. a titoli quali I’m a Stranger Here Myself: Notes on Returning to America After 20 Years Away, The Life and Times of the Thunderbolt Kid e, soprattutto, At Home: A Short History of Private Life.

Bill Bryson, Breve storia di (quasi) tutto (trad. Mario Fillioley), voto = 3/5

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La danese

Siamo a Copenhagen, 1925. Einar e Greta, marito e moglie, sono due artisti: lui è un paesaggista con una discreta fama, lei invece una ritrattista ben poco considerata. Sono una coppia unita, ma non potrebbero essere più diversi: lei viene dalla California, è nata in una famiglia ricchissima ma ha sempre voluto conquistarsi la propria indipendenza, è un tipo pratico, decisionista, lui è nato in un minuscolo villaggio danese in una casa poverissima, è rimasto ben presto orfano, è delicato, fragile, silenzioso. Un giorno, quasi per caso, per aiutare la moglie a completare dei dettagli del ritratto di una cantante che non può essere presente alla posa, Einar indossa dei vestiti da donna: da quel momento, si “risveglia” dentro di lui un’altra persona, Lili, un’altra identità che, poco a poco, si affianca a quella con cui ha vissuto tutta la sua vita. Einar, sostenuto anche dall’appoggio della moglie che non reagisce mai in modo inorridito ma, al contrario, si sforza di farlo star bene (anche perché Lili diventa il suo soggetto preferito, e la sua vena creativa sembra rifiorire), sempre più spesso “lascia spazio” a Lili, non si tratta solo di un cambio di abiti, è tutta la personalità dell’uomo che sembra progressivamente “ritirarsi” mentre l’altra si fa strada, fino a che questa continua “tensione” non rischierà di mettere in serio pericolo la salute di Einar/Lili e giungerà il momento di prendere una decisione definitiva.

Nel corso dei capitoli, con una serie di salti indietro nel tempo, conosciamo anche il passato dei due, le persone che furono importanti nelle loro vite prima che si conoscessero e si sposassero, e che nel caso di Hans, amico d’infanzia di lui, tornano inaspettatamente a svolgere un ruolo, le esperienze che in qualche modo hanno formato i loro caratteri… mentre, nel presente, la delicata trasformazione di Einar attraversa varie fasi, dalla pressocché totale “scissione” della personalità, tanto da considerare quasi Einar e Lili come due persone perfettamente distinte e reali, “dimenticandosi” dell’altra quando si trova a vivere nei panni dell’una, al disgusto di sé e alla disperazione più cupa, che lo spinge persino a prendere in considerazione l’idea del suicidio.

Questa è la storia di Einar/Lili e della sua ricerca di identità e di felicità, ma è allo stesso tempo anche la storia di Greta, del suo amore disinteressato, della sua visione anticonformista (che la porta, ad esempio, a “proteggere” il marito dai tentativi di alcuni medici di procedere con “terapie” invasive e violente, e in generale dai suoi sforzi tesi sempre verso l’obiettivo finale di far sì che l’uomo che ama possa essere se stesso), del suo spirito intraprendente, dei suoi sacrifici e anche, alla fine, del suo percorso di distacco definitivo da Einar/Lili e di inizio di una nuova vita accanto a un altro uomo. E forse questa è una delle parti più riuscite del libro, quando Lili, dopo l’operazione, è ormai pronta e smaniosa di costruirsi un’esistenza diversa e indipendente, e Greta non riesce a convincersi che il suo “compito” è finito, che deve lasciarla andare, che non avrà più bisogno di lei, che anzi ora è arrivato il momento di pensare a se stessa.

Alla fine del libro, l’autore avvisa che la trama prende sì spunto da un fatto realmente accaduto (nel 1930 un uomo di nome Einar Wegener si sottopose a un’operazione per il cambio di sesso), ma sono talmente tanti gli elementi aggiunti dalla sua fantasia che questa non può definirsi “la storia” di quell’evento. Nel complesso, una storia d’amore non convenzionale, forse per certi versi difficile da capire, ma non per questo meno autentico. Bello anche il piccolo contorno di personaggi secondari di questa “famiglia allargata” unita da una grande solidarietà, Hans, Carlisle (il fratello di Greta), Henrik.

David Ebershoff, La danese (trad. Anna Mioni), voto = 4/5

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La notte del gatto nero

Seguo da tempo questo autore nei vari social network dedicati alla lettura, perché per certi generi sembra avere gusti simili ai miei e scrive recensioni interessanti, perciò ho deciso di vederlo anche all’opera in un suo romanzo, incoraggiata anche dai giudizi largamente positivi che trovavo in giro. All’inizio avevo puntato a un altro titolo, ma alla fine ho letto prima questo, più recente e quindi più facilmente reperibile.

Libro iniziato e finito in una sera: da principio perché ti prende, va da solo, la discesa ineluttabile nella tragedia è talmente rapida ma reale che non te la senti di abbandonare i personaggi; poi, però, capisci dove tutto andrà a parare, un po’ rimani deluso e, in ultimo, vuoi solo arrivare in fondo il più in fretta possibile e metterlo via, come quei libri dai quali si sperava qualcosa di più. Così è successo a me, almeno.

Nulla di molto nuovo, in realtà, una riedizione ancora più cupa di Un borghese piccolo piccolo di Cerami: uomo perbene, onesto, rispettoso dell’autorità, scopre a sue spese che la Giustizia in cui aveva sempre creduto non esiste. Che se vuole ottenerla deve muoversi da solo, piuttosto che affidarsi alla Legge. Anzi, addirittura in questo caso il nemico è la Legge.

Giovanni Ribaudo è un tranquillo marito e padre di famiglia. Tutte le sue certezze crollano di schianto quando l’unico figlio, Salvatore, 19 anni, viene arrestato con l’accusa di spaccio di droga. Suo padre è costretto a combattere con autorità sprezzanti, reticenti e inutilmente crudeli, a indebitarsi per pagare la parcella di esosissimi avvocati, nonché a interrogarsi dolorosamente sul suo fallimento come genitore. Finché la notizia che Salvatore si è suicidato in carcere non spazza via questi pensieri, assieme all’intero sistema di valori che l’ha guidato per tutta la vita, e lo indirizza a quello che sarà l’unico, fondamentale scopo della sua esistenza ormai svuotata di qualunque altro senso: trovare i colpevoli della morte del figlio (perché Giovanni è convinto che egli sia stato o ucciso o spinto al suicidio dal trattamento inumano che riceveva in carcere) e punirli uno per uno. E per ottenere ciò si rende ben presto conto che le vie tradizionali non gli saranno di nessun aiuto.
Neanche la Giustizia vendicativa che persegue il protagonista è però perfetta: coinvolge un innocente che non c’entrava nulla, perché la missione di Giovanni è piegata, a sua insaputa, ad altri scopi, non “risana” nessuna ferita e, anzi, la sua furia ossessiva nell’ottenerla lo allontana senza rimedio dalla moglie.

Ci si poteva limitare (“limitare” per modo di dire, perché ne sarebbe venuto fuori un libro sicuramente interessante) a prendere di petto il tema dei meccanismi della giustizia che risucchiano intere esistenze per anni e prosciugano energie e finanze delle famiglie coinvolte. A indagare sulla situazione nelle carceri. Oppure a mostrare l’abisso che si spalanca sotto i piedi di un padre quando scopre che il figlio che credeva di conoscere è una persona totalmente diversa, ma che non può comunque abbandonare. Perché invece tentare la strada del mystery e appiccicarci un complotto diabolico e, ai miei occhi, tanto sproporzionato? Così, a leggere il movente finale della disgrazia capitata al figlio del protagonista, piuttosto che a indignarmi e a riflettere sulle storture e sugli scandali che sicuramente infestano l’apparato giudiziario, sono portata a ricondurre e ridurre il tutto a un caso particolare, odioso quanto si vuole ma non replicabile, non generalizzabile, che sostanzialmente finisce per disinnescare gran parte della critica al sistema cui forse il romanzo intendeva dar voce. Forse, stavolta, non cercare a tutti i costi il colpo di scena finale, il singolo colpevole all’origine di tutto, “insospettabile” e ai vertici della gerarchia, tentare una strada meno ad effetto, puntare sulla tragica “normalità” e “banalità” ed “esemplarità” di certe vicende, piuttosto che sull’eccezionalità estrema, avrebbe giovato.

Avevo pensato di comprare, dello stesso autore, anche I cani di via Lincoln (è l’altro titolo di cui parlavo all’inizio), ma per ora lascio stare: questo romanzo non mi ha invogliato a leggere altro di suo.

Antonio Pagliaro, La notte del gatto nero, voto = 2/5
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Storia di un archivista

Ho deciso di non abbandonare questo periodo storico, anni ’30-’40, che ha caratterizzato questo inizio d’anno, ma dalla Germania nazista e dalla Francia occupata ci spostiamo nell’Unione Sovietica dell’epoca delle “purghe” staliniane.

Chiaramente non posso che guardare con affetto a un libro che si intitola Storia di un archivista (può anzi essere anche stato proprio il motivo per cui, anni fa, l’ho comprato): libri, biblioteche e bibliotecari sono presenze abbastanza usuali nei romanzi, molto meno gli archivi e i miei colleghi. In effetti però il protagonista del romanzo di Holland, Pavel, è un anti-archivista: gli scatoloni pieni di fascicoli e manoscritti che gli arrivano lui è costretto non a conservarli, ma a distruggerli. Siamo a Mosca nel 1939, e Pavel lavora alla Lubjanka, la famigerata sede dei servizi segreti sovietici; una volta era un insegnante di letteratura, ma, dopo essere stato coinvolto in un caso di diffamazione, tristemente comune all’epoca, l’hanno sbattuto qui e ora, quale amaro contrappasso, si occupa di distruggere i manoscritti degli autori sospetti. Uno di questi è Babel’, la cui fugace conoscenza scatena in Pavel, la cui cita sembra essersi infilata in un tunnel di depressione (è anche rimasto vedovo da poco), un’intima ribellione, un’occasione di riscatto: segretamente, giorno dopo giorno, cercherà di salvare dal fuoco dell’inceneritore quanti più manoscritti possibili.

Non ricordo dove, ma qualcuno sul web consigliava di iniziare a leggere questo romanzo in una ridente giornata di sole, o accoccolati accanto alla persona amata, insomma in un’atmosfera e in una disposizione d’animo gioiosa e rassicurante, altrimenti si rischiava di finire risucchiati dall’estrema cupezza e desolazione di questa difficile storia. E c’è poco da stare allegri, in effetti, il tono è volutamente grigio, spento, malinconico, tutti i personaggi, Pavel e i suoi amici, sua madre, ci appaiono stanchi, tesi, sorretti solo dalla loro rete di reciproca solidarietà. In realtà avrei preferito che il romanzo si calasse maggiormente negli ingranaggi diabolici del meccanismo di sospetti, delazioni, accuse incrociate, che funzionava nei palazzi del potere, quella che qui viene evocata è piuttosto l’atmosfera, di rassegnazione e paura perenne, in cui sono calate le persone comuni, i pesci piccoli del sistema. Libro che scorre rapidamente, il tono dimesso e la quasi assenza di grandi accadimenti o svolte nella trama avevano un loro perché nell’economia della storia, ma certo la lettura non mi ha particolarmente coinvolta.

Travis Holland, Storia di un archivista (trad. Elisa Banfi), voto = 3/5
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I cospiratori

Superfluo stare a ribadire l’importanza delle copertine: ad attirarmi verso il libro I cospiratori di Michael André Bernstein è stata proprio questa, splendida.

Una non meglio precisata provincia orientale dell’impero austro-ungarico, 1913. L’apparente torpore di questo Stato ormai agonizzante è scosso da mille tensioni sotterranee, dalla crisi economica al diffondersi delle idee socialiste e anarchiche, dallo strisciante antisemitismo al proliferare di enigmatiche figure di rabbini-santoni che si autoproclamano Messia del popolo ebraico. Il conte-governatore Wiladowski, stupendo personaggio (vedi più oltre), ha un’unica, assillante, preoccupazione: non vuole finire assassinato da qualche fanatico. Per evitarlo, ha al suo servizio una spia abilissima, l’ebreo Jakob Tausk, che ritiene che la peggiore minaccia alla vita del suo padrone sia il folle rabbino Brugger, da poco giunto in città, che predica il terrore fra i suoi adepti. Forse però sottovaluta il pericolo rappresentato da Hans Rotenburg, giovane figlio del più ricco uomo d’affari ebreo della città, Moritz, e dai suoi nobili amici, che hanno formato, non si sa quanto per noia o quanto per intima convinzione, una cellula clandestina del partito comunista e pianificano un attentato da attuarsi durante le celebrazioni pasquali della primavera del 1914…

Questa, in estrema sintesi, la trama, che però in effetti è complicatissima e si dipana con estrema lentezza: ciascun personaggio non rivela mai appieno le sue intenzioni, i suoi propositi e tutto ciò di cui è a conoscenza, le sue azioni hanno sempre intenti duplici o triplici, e alcune connessioni tra loro potrebbero a una lettura poco concentrata non essere neppure colte. Efficace quindi la descrizione degli intrighi e delle insidie della diplomazia e del gioco politico.

Si può quasi dire che, in questo romanzo, non esistano personaggi “secondari”: la psicologia di ciascuno di essi, a turno, è scandagliata con finezza e nelle pieghe più nascoste, in uno stile che preferisce di gran lunga il discorso indiretto ai dialoghi. Colpisce anche la struttura compositiva del libro: i capitoli sono lunghissimi, e lo sono anche gli stacchi che li suddividono quanto meno in diversi “paragrafi”, l’attenzione, lo sguardo dell’autore (e del lettore) si posa su un personaggio e poi, quasi insensibilmente, attraverso uno spostamento che all’inizio quasi non si avverte, “scivola” su un altro, che agisce in un altro luogo, in un altro ambiente, senza bruschi salti, come a significare che tutti gli eventi, le azioni, i pensieri degli attori in scena sono strettamente connessi gli uni agli altri, non è possibile scinderli e trattarli separatamente, neppure graficamente, ciò che fa o dice uno influenza invariabilmente le azioni di un altro e cambia, più o meno sensibilmente, tutto il corso degli eventi; di qualsiasi mutazione del contesto ci viene insomma spiegato l’impatto sui protagonisti quasi in simultanea. A me ha fatto venire in mente una carrellata di sapore quasi cinematografico, anche se non potrebbe esserci niente di meno trasponibile sullo schermo di questo libro, talmente tante dovrebbero essere le informazioni da trasmettere allo spettatore con mezzi diversi dai dialoghi, troppo difficile far capire esattamente tutte le macchinazioni e i retropensieri che non vengono mai esplicitamente dichiarati e che possono essere espressi solo dalla voce di un narratore onnisciente.

Trascinante, o meglio quasi “avvolgente”, “vischioso” (non so come dire) per la fluidità della narrazione di cui sopra (è materialmente difficile trovare un punto “comodo” in cui interrompere la lettura) e però, allo stesso tempo, tremendamente ostico, proprio per questo stesso motivo e poi per la complessità della trama e la lentezza del suo svolgimento (e però questa non si può definire, in effetti, un vero e proprio difetto del libro, anzi, rende più verosimili e comprensibili le azioni dei personaggi e contribuisce a delineare con grande esattezza l’atmosfera di attesa quasi estenuata che sembra caratterizzare questo particolare contesto storico), per gran parte delle sue pagine il libro va avanti a forza di interminabili analisi delle riflessioni e delle motivazioni dei personaggi per fare o non fare, dire o non dire, determinate cose in un lentissimo avvicinamento a queste benedette celebrazioni per la Pasqua.

Finalmente, comunque, verso pagina 400 comincia a succedere qualcosa, che si esaurisce rapidamente e si conclude in modo non del tutto soddisfacente (ma non sarebbe stato in tono col romanzo e con il messaggio che vuole dare un finale “col botto”).

Insomma, riconosco l’abilità dell’autore e ne ho ammirato la capacità di costruire gli intrighi, ma una gran fatica solo parzialmente ricompensata. A dare un voto tutto sommato discreto contribuiscono comunque un tono venato generalmente da un certo humor nero e un gustoso sarcasmo, e la caratterizzazione squisita del personaggio del conte Wiladowski, un nobile di antica schiatta ma profondamente disilluso sulle vuote formalità in cui si perpetua il governo che serve, di grande intelligenza e scaltrezza ma fondamentalmente di uno sconfinato egoismo ed egocentrismo e concentrato unicamente sui suoi bisogni e indifferente a quelli di chiunque altro, annoiato, critico, sprezzante, e ormai neppure più tanto preoccupato, con l’età che avanza, di dissimulare la sua intima estraneità all’ambiente che lo circonda e il fatto di mostrare continuamente nulla più che una maschera in pubblico, beffardamente contento se riesce a scandalizzare qualcuno del suo circolo con le sue azioni poco ortodosse (basti pensare alla sua decisione di scegliersi come primo collaboratore e confidente un ebreo), dotato di un umorismo nerissimo e spietato e tuttavia attaccato tenacemente a una vita che, in fin dei conti, ancora può riservargli qualche piacevolezza e che non ha nessuna intenzione di abbandonare anzitempo in modo violento, e per il resto per lui succeda quel che succeda. Insomma, un personaggio profondamente immorale, ritratto con grande acume e quasi con “affetto” e divertentissimo da seguire.

Michael André Bernstein, I cospiratori (trad. Marcella Dallatorre), voto = 3/5
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Il lamento del prepuzio

In questo, che non è un romanzo ma si può definire un libro di memorie, Shalom Auslander affronta il tema del suo a dir poco conflittuale rapporto con Dio. Essendo cresciuto in una famiglia ebrea ultra ortodossa, avendo frequentato fin dall’infanzia scuole ultra ortodosse, essendogli state inculcati centinaia e centinaia di prescrizioni, divieti, comandamenti da non violare in nessun caso a meno che non si voglia incorrere in terribili punizioni, ne ha ricavato un ostinato rifiuto delle sue radici e di qualsiasi forma di religione, e tuttavia non riesce ancora, a 35 anni, ormai sposato e in attesa del primo figlio, a liberarsi della presenza ingombrante di Dio.

Non è ateo, anzi: “Io credo in Dio. È proprio questo il mio problema”. Il suo Dio, infatti, è un tipo costantemente incazzato con noi, vendicativo,  sadicamente intento a studiare piani sempre più crudeli e beffardi per rovinarci ogni piccolo momento di felicità che riusciamo a ricavarci, a far fallire i nostri piccoli progetti non appena anche solo per un attimo abbassiamo la guardia verso di Lui.

Basta leggere il fulminante e divertentissimo incipit del libro per farsene un’idea:

Quando ero bambino, genitori e insegnanti mi parlavano di un uomo che era molto potente. Mi dicevano che poteva distruggere il mondo intero. Mi dicevano che poteva sollevare le montagne. Mi dicevano che poteva dividere il mare. Era importante mantenerlo di buonumore. Quando obbedivamo a quanto ci aveva comandato, gli piacevamo. Gli piacevamo talmente tanto che uccideva quelli a cui non piacevamo. Ma quando non obbedivamo a quanto ci aveva comandato, non gli piacevamo. Ci odiava. Certi giorni ci odiava talmente tanto che ci uccideva. A volte invece lasciava che gli altri ci uccidessero. Questi giorni noi li chiamavamo «giorni di festa».

Il libro prosegue narrando le esperienze scolastiche di Shalom, la triste e oppressiva atmosfera che si respira nella sua famiglia, i suoi comici “patteggiamenti” con Dio, le prime ribellioni e trasgressioni: è questa la parte migliore dell’opera, tutta giocata sul filo dell’ironia e del grottesco. I temi trattati sono a volte oggettivamente problematici, basti pensare ai rapporti familiari degli Auslander, alla convivenza con un padre purtroppo spesso violento, eppure l’autore riesce ad affrontarli e a mettersi a nudo con un’ammirevole leggerezza. Fanno da contrappunto altri capitoletti ambientati al giorno d’oggi, in cui Shalom adulto deve combattere la sua paura, anzi, la sua profonda convinzione, che Dio sta aspettando solo un suo minimo passo falso, che la sua felicità familiare è solo apparente, perché Egli ha intenzione di vendicarsi di lui in modo atroce, gliela farà pagare amaramente uccidendogli il nascituro, o la moglie, o entrambi, come ripete continuamente alla consorte, agli amici, allo psicanalista.

La seconda parte del libro è meno interessante: durante gli anni dell’adolescenza matura sempre più il distacco di Shalom dal suo ambiente, dalla fede religiosa dei suoi avi, forse la scrittura perde qualcosa in candore e le situazioni diventano più ripetitive.

In tutto ciò, comunque, colpisce questo lavoro di scavo psicologico che Auslander ha voluto fare su se stesso, questa autoanalisi in pubblico, e il fatto che, pur insultandolo, mandandolo a quel paese, sfidandolo e detestandolo cordialmente quotidianamente, il suo rapporto con Dio e la sua ricerca spirituale siano molto più sinceri e sentiti di molti altri credenti, di qualsiasi altra religione.

Lettura divertente, per lo più: in ogni caso, merita un voto discreto anche solo per i geniali Ringraziamenti finali dell’autore, capolavoro di originalità!

Shalom Auslander, Il lamento del prepuzio (trad. Elettra Caporello), voto = 3/5
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Smettila di camminarmi addosso

Inizio questa recensione con le ultime parole del romanzo:

Questo libro non è rassicurante. Non lo vuole essere.
È un grido d’aiuto.
Spero che qualcuno lo senta.

Si tratta dell’incipit del romanzo della protagonista, Margherita. Margherita e il suo compagno, Sergio, sono appena andati a vivere insieme in un nuovo appartamento, a Genova. Lui però è un fotografo impegnato in reportage di guerra e non c’è quasi mai, al momento è in Afghanistan, perciò il trasloco è tutto sulle spalle di lei. Margherita è una scrittrice, ma è appena uscita da un periodo di depressione, ha avuto un esaurimento nervoso, e deve ancora riuscire a convivere con i traumi della sua infanzia, e quindi inevitabilmente sente molto la fatica di quell’incombenza, la lontananza del suo uomo, un senso di abbandono e solitudine.
Complici le sottili pareti dell’appartamento, però, diventa testimone del dramma della sua vicina di casa, Anna, il cui marito la picchia regolarmente. Tra queste due donne, dopo le iniziali difficoltà e la riluttanza di Anna a confessare il suo problema, si instaura un rapporto di solidarietà, che si estende anche pian piano alle altre donne del condominio, del quartiere, alla stessa cugina di Margherita, Irene, con cui la protagonista era sempre stata in conflitto. Margherita infatti affina le sue capacità di osservazione e le concentra sulle vite delle sue vicine, ne coglie la stanchezza, il grigiore, l’impressione di essere intrappolate in una serie di gesti ripetitivi e meccanici, la disillusione verso i sogni coltivati in gioventù, la sensazione di essere state sostanzialmente tradite e abbandonate da uomini che, in tutto il romanzo, si rivelano, quando non apertamente violenti o egoisti, nel migliore dei casi lontani, come Sergio, o assenti, come il padre di Margherita, morto quando lei era bambina.
E quindi questa “rete” di donne che si mette in moto per aiutare finalmente Anna a uscire da quell’incubo di violenza familiare è l’unica ancora di salvezza contro la solitudine. È un romanzo molto molto triste, ma anche tragicamente vero (nelle ultime pagine sono presentate alcune statistiche sulla violenza sulle donne in Italia negli ultimi anni), popolato di personaggi affascinanti nella loro riuscita caratterizzazione psicologica (Anna, suo marito, la cugina Irene, la madre di Anna) e scritto meravigliosamente.

Claudia Priano, Smettila di camminarmi addosso, voto = 3,5/5
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Alessandro Manzoni. Quattro ritratti stravaganti

Avevo ripreso in mano I promessi sposi per la consueta rilettura (mi sono ripromessa di riprenderlo sempre con regolarità, checché ne pensino alcuni è uno dei romanzi più belli che siano mai stati scritti), ma poi ho cambiato idea, anche perché il Meridiano che possiedo è sì l’anastatica dell’edizione del 1840 con le illustrazioni del Gonin, quindi tanto bello, ma è scritto a caratteri minuscoli. Ho “ripiegato” allora su un libro acquistato giusto giusto un anno fa, Alessandro Manzoni. Quattro ritratti stravaganti di Silvia Giacomoni. Si tratta non di una vera e propria biografia ma di un viaggio nella personalità complessa e tormentata del Manzoni, fatto attraverso lettere, commenti di critici letterari, aneddoti, ma anche brani delle sue opere, in primis naturalmente I promessi sposi, in cui la studiosa riteneva che più affiorassero riferimenti dell’autore a se stesso (o ai suoi familiari), e brani biblici (la Giacomoni è una biblista, e ha cercato di dimostrare come alcuni passi delle Scritture abbiano fornito spunti a Manzoni, o possano suggerire riflessioni sul suo carattere). Un libro quindi abbastanza “stravagante” di suo, perché non un saggio vero e proprio ma una specie di collage, ma di piacevole (e veloce) lettura. Dal mio punto di vista, niente di particolarmente nuovo, ché molte delle informazioni le avevo già apprese dalla lettura di Citati (La collina di Brusuglio), Ginzburg (La famiglia Manzoni), articoli di giornale, o altro: un modo comunque per rinfrescare la memoria e rifarsi un po’ gli occhi con la splendida prosa del Nostro. Non capisco la scelta di relegare in fondo al libro e non in nota i rimandi bibliografici e i chiarimenti, “per rendere spedita la lettura”: la lettura risulterà anche più spedita, ma così facendo i chiarimenti sono scollegati dal contesto e il lettore è costretto ad andarsi a ricercare i passi corrispondenti da solo, cosa che 99 volte su 100 non ha voglia di fare.

Silvia Giacomoni, Alessandro Manzoni. Quattro ritratti stravaganti, voto = 3/5
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Pene d’amore

Tempo fa leggevo, sul catalogo delle novità in arrivo per l’editore Guanda, la presentazione della raccolta di racconti Pene d’amore, a cura di Gianni Biondillo.
Si trattava di sette racconti erotici scritti da autori italiani, tutti uomini. Il punto era, infatti, secondo il curatore, che negli ultimi anni la letteratura erotica (eterosessuale, ché invece il discorso è diverso per quella omosessuale) è stata “monopolizzata” dalle scrittrici (vero), ma quello che qualche tempo fa poteva essere visto come una forma di liberazione è diventato routine e ripetizione di cliché. D’altra parte, nel mondo della pornografia a dettare le regole è sempre l’uomo, sempre però in modo impersonale e anonimo, da deus ex machina (nei film porno il protagonista maschile è sempre acefalo, non si vede mai il volto), senza quindi mettersi mai veramente in gioco. L’intento era allora mostrare il sesso dal punto di vista maschile, ma avere il coraggio anche di far vedere i desideri, le ansie, le perversioni, le paure, i sentimenti dell’uomo. Questo, in sintesi, il contenuto dell’introduzione (la prima parte almeno, nella seconda ho capito poco!).
Dicevo, mi incuriosì questa presentazione, vidi il libro in libreria ma poi esitai a comprarlo, la letteratura erotica non è proprio il mio genere, non volevo spendere dei soldi per qualcosa in cui non ero pienamente convinta, pensai: “Va beh, ne posso fare anche a meno”. Qualche giorno fa, però, vidi il libro a casa della mia amica Stefania, e glielo chiesi in prestito.

Uno dei miei timori, nell’accostarmi a questo libro, era che i racconti finissero per risolversi in interminabili descrizioni di parti del corpo e atti vari, e che di “storia” ci fosse ben poco, mentre io sono abbastanza tradizionalista, per appassionarmi mi serve una trama, un inizio, uno sviluppo, una fine. Invece mi sbagliavo, perché praticamente tutti i racconti, tranne uno, hanno uno sviluppo narrativo, in alcuni ci sono anche degli apprezzabili colpi di scena o svolte.
Apre la raccolta Un bicchiere di tè freddo di Gianni Biondillo, che l’autore si vide “censurare” da una rivista femminile. Questo episodio è stato anzi lo spunto per l’idea del volume di racconti, poiché Biondillo, come spiega nell’introduzione, ritiene che, più che il contenuto del racconto in sé, che lui non trova eccessivamente crudo o esplicito (era destinato a una rivista femminile!), sia stato il fatto che fosse scritto da un uomo a farlo rifiutare. Mi è piaciuto, semplice, breve, lineare, con una svolta, forse non totalmente inaspettata ma comunque buona, alla fine.
Il secondo racconto è forse, ex aequo con il terzo, il mio preferito. Si intitola La danza dei ragni (il titolo non l’ho capito) di Gianluca Morozzi (del quale da tempo sono indecisa se leggere o no Blackout, che potrebbe rivelarsi una cretinata o un capolavoro). Mi è sembrato quello dalle immagini più audaci, e soprattutto a metà c’è un colpo di scena davvero notevole che mi ha fatto scattare sulla poltrona (fino ad allora mi dicevo: “Va beh, grandi porcherie, però non succede niente…”).
Il terzo, Il fantasma di Tiziano Scarpa, è pure bello ma perché tratta la materia con molta ironia, simpatico l’autore a prendersi in giro e, più che interessarsi alla scena erotica, qui si ammira il virtuosismo di Scarpa che scrive un racconto su lui che cerca di scrivere il racconto per la presente raccolta.
Anche Carne di Marcello Fois mi è piaciuto, il sesso non vi è neanche troppo presente, ma è una parodia (riuscita) del genere hard boiled, quello con protagonisti gli sbirri “duri” e supermacho, che lavorano secondo le proprie regole, che hanno decine di donne, eccetera, quel tipo lì, insomma, insopportabile, con tutti i cliché del caso.
Andirivieni di Andrea Bajani si distingue dagli altri racconti perché è quasi casto e “poetico”, un po’ una “pausa” nella lettura.

A quel punto, comunque, mi era venuta un po’ una saturazione da cazzi e inculate (che sembrano il non plus ultra, a proposito), e siccome non ero neppure di ottimo umore (era venerdì sera), ho interrotto per scrivere un post. Quando ho ripreso, la sera dopo, ho concluso con gli ultimi due racconti, che si sono rivelati una delusione. Gaia, gli inizi di Raul Montanari è il racconto “senza trama”, l’eccezione cui accennavo prima, in cui si narra delle prime esperienze erotiche di un’adolescente (la solita ninfetta bellissima) fino a che non perde la verginità con un lontano cugino: che ce frega a noi?
Il soffio delle F.A.R.C. di Valerio Evangelisti è un po’ un delirio con i militanti delle F.A.R.C. eroi del bene e un presidente USA mostro di malvagità (la storia è ambientata in un futuro prossimo) che viene ucciso in modo molto particolare: se questa è l’ideologia dell’autore, mi rallegro di non aver mai letto alcun romanzo della sua saga.

Ironicamente, Biondillo nell’introduzione dice che l’obiettivo della raccolta sarà stato raggiunto se i racconti saranno riusciti a far masturbare almeno un lettore o una lettrice: con me non ci sono riusciti ma probabilmente è perché stavo abbastanza nervosa, come ho già spiegato, e d’altra parte il libro mi è piaciuto, visto che l’ho finito in due serate.

Pene d’amore, a cura di Gianni Biondillo, voto = 3/5
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Chiamami col tuo nome

Un altro bel libro, Chiamami col tuo nome di André Aciman. Lo comprai perché incuriosita da una recensione a dir poco entusiasta letta sul Corriere della Sera, per la quale si trattava nientepopodimeno che di un capolavoro assoluto. Decisi di fidarmi.

La storia: siamo a fine anni Ottanta, Riviera ligure. Elio è il figlio di un professore universitario che ogni hanno ospita nella sua villa al mare dei giovani studenti per permettere loro di lavorare l’estate in Italia. Arriva Oliver dagli USA che sta rivedendo la tesi post dottorato per la pubblicazione. Tra i due ragazzi scatta prima una fortissima attrazione e poi l’Amore.

G., che ha visto il libro nella mia macchina, ha commentato: “Detta così pare un romanzo della serie Harmony”. È vero, detta così sembra una stupidaggine. Eppure, è una delle letture più emozionanti che abbia mai fatto. La prima parte, in cui Elio (è lui che narra tutto in prima persona) prima si accorge di essere attratto da Oliver, poi attua tutta una serie di trucchi per attirare la sua attenzione, poi ha paura di essergli totalmente indifferente, poi è geloso, etc, rende benissimo i travagli dell’amante. Che bella la scena in cui poi, finalmente, riesce a esprimere il suo sentimento. La seconda parte è, probabilmente, quanto di più erotico abbia mai letto, che io mi ricordi. Ma, a parte una scena un po’ “forte” e “schifosa” (leggere per sapere, io non la riassumo), sono passi violenti e però romanticissimi, e la scrittura meravigliosa. La terza e la quarta parte altrettanto buone, anche se mi sono piaciute di meno.

Due passi:

“Da qualche parte esiste una legge secondo cui se una persona si innamora di un’altra, questa deve ricambiare per forza. Amor, ch’a nullo amato amar perdona, le parole di Francesca nell’Inferno. Aspetta e sii fiducioso. Io ero fiducioso, anche se forse era questo ciò che avevo sempre voluto: aspettare in eterno.” (p. 41)

“Ma il sonno non veniva, e potevo star certo che a vegliare su di me c’erano non uno, bensì due pensieri angoscianti, come una coppia di spettri materializzatasi dalla caligine del torpore: desiderio e vergogna, brama di spalancare la finestra e, senza pensarci, correre in camera sua completamente nudo e, dall’altra parte, un’ostinata incapacità di affrontare il benché minimo rischio per realizzare qualcuno dei miei propositi. Eccolo là, il lascito della giovinezza, le due mascotte della mia vita, fame e paura, che mi vegliavano e mi dicevano: Tanti prima di te hanno sfruttato l’occasione e sono stati ricompensati, perché non lo fai anche tu? Nessuna risposta. Tanti hanno esitato, perché esiti anche tu? Nessuna risposta. E poi arrivò, più sprezzante che mai: Se non dopo, Elio, quando?” (p. 122)

André Aciman, Chiamami col tuo nome (trad. Valeria Bastia), voto = 4/5
Per acquistarlo su ibs.it o su libreriauniversitaria.it

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