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L’officina della guerra

Progetto prima guerra mondiale: parte 4
La prima guerra mondiale è da sempre un argomento che mi interessa particolarmente, non tanto dal punto di vista strategico-militare, quanto per l’impatto che ebbe sull’immaginario collettivo europeo e mondiale e gli strascichi che lasciò. Col tempo, ho messo insieme una (piccolissima) raccolta di libri, fra saggi e romanzi, sull’argomento. Nel primo centenario dello scoppio della guerra (1914-2014), mi propongo di leggerli.
Già letti in precedenza (e commentati qui): Bollettino di guerra, Plotone di esecuzione, I fogli del capitano Michel, Scritture di guerra, Ci rivediamo lassù, La paura, Compagnia K

Purtroppo, per svariati motivi, diverso tempo è passato dalla fine della lettura alla stesura di questo post, pertanto quel che sarò in grado di fare sarà, più che una vera e propria “recensione”, una specie di sintesi stringatissima dei temi trattati in questo saggio. Servirà alla mia memoria e spero comunque che, magari, invogli qualcuno a prenderlo in mano.

Partito da uno spunto “casuale” (l’essersi imbattuto, nel corso di ricerche presso l’Archivio storico della Provincia di Genova, in un fascicolo dal curioso titolo “Maniaci militari”), l’autore ha deciso di affrontare, in questo saggio uscito in prima edizione nel 1991 (un periodo in cui ancora, a suo dire, l’uso delle fonti “popolari” per lo studio della Grande Guerra era a uno stadio quasi pionieristico), il problema di perché, in quanti e quali sensi la prima guerra mondiale viene generalmente, e secondo lui correttamente, vista come una frattura che introduce l’umanità nel mondo “moderno”. Solo per le sue dimensioni planetarie, o anche perché determinò precise trasformazioni nel “mondo mentale”?

Alcuni “sintomi” e anticipazioni di quel che era di là da venire si ebbero, su scala minore, nel corso della guerra russo-giapponese del 1904-1905: che le guerre fossero sempre state cruente e distruttive, dei corpi dei combattenti e dell’ambiente naturale, è certo, ma per la prima volta davanti agli occhi di chi la visse e la raccontò (ad es. il celebre giornalista italiano Luigi Barzini) si scatenò la violenza di tecnologie capaci di avvicinarsi, e talvolta addirittura di sostituirsi agli sconvolgimenti di origine naturale quali terremoti e inondazioni. Ancora di più questo doveva avvenire nella guerra del 1914-18, i cui fronti, per i soldati assolutamente impreparati a quello spettacolo, furono incredibili e assordanti scenari dove il rumore del cannone era una presenza costante e i bagliori e gli scoppi interrompevano la naturale successione del giorno e della notte.

Guerra “moderna” e “nuova” anche per l’inusitata capacità di “invasività” nella vita del singolo: sebbene già fin dall’epoca delle guerre napoleoniche il potere coercitivo dello Stato si fosse fatto sempre più stringente, mai come ora le tradizionali forme di fuga e imboscamento, di renitenza alla leva, si dimostrarono estremamente difficili se non impossibili. Gibelli intende tuttavia il potere di “mobilitazione” dello Stato anche in senso “positivo”, e cioè con uno sforzo senza precedenti sulla propaganda.

Ma, soprattutto, l’autore sottolinea il carattere “moderno” del modello di soldato cercato e plasmato dalla guerra: una massa di combattenti “anonima”, forza bruta, non specializzata, adatta a compiti ripetitivi e i cui scopi ultimi, per i più, dovevano risultare poco comprensibili, in una parola quasi “bestiale”, in parallelo con il contemporaneo sorgere dei modelli di produzione del taylorismo e del fordismo, specialmente in USA.

Di fronte a una tale macchina, l’unica via di “fuga” per il singolo (e qui si ritorna al nucleo originario della ricerca) diventa “immaginaria”, più che reale: la follia, vera o simulata, del soldato, analizzata principalmente attraverso le testimonianze dei medici militari, i quali per altro sono più agenti del potere che terapeuti, visto che la loro preoccupazione principale è cogliere gli “indizi” della simulazione, che per noi, abituati a cercare un rapporto di collaborazione fra medico e paziente, suona paradossale (qui si può parlare piuttosto quasi di una “sfida” tra medico e paziente!).

In ultimo, guerra “moderna” anche per i mezzi usati per la prima volta per raccontarla: cinema e fotografia.

Antonio Gibelli, L’officina della guerra, voto = 3,5/5

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Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello…

Preso in biblioteca, dove ero andata per cercare Ossa nel deserto, d’impulso, naturalmente attirata dal titolo choc.
Il saggio ha per oggetto un caso giudiziario ritrovato negli archivi, un caso clamoroso per la ricchezza e la completezza della documentazione ma che, tutto sommato, attirò l’opinione pubblica solo brevemente, e finì dimenticato. Michel Foucault lo usò per un seminario al Collège de France nel 1973, il cui risultato è questo libro, diviso in due parti: la prima è l’edizione di tutti i documenti del processo, la seconda contiene dei brevi saggi di analisi di Foucault e dei suoi allievi.

Siamo nel Calvados, nella Francia del nord, nel giugno 1835: Pierre Rivière, contadino, vent’anni, massacra a coltellate la madre, la sorella diciottenne e il fratello di soli sette anni, affermando di voler “liberare il padre”, e fugge nei boschi. Viene aperta un’inchiesta, vengono ascoltati i primi testimoni, che subito riferiscono del carattere cupo e solitario del giovane, delle sue presunte “stranezze”, della sua generale fama di “idiota”, mentre si cerca in ogni dove il fuggitivo. Circa un mese dopo, Rivière viene identificato e arrestato; in un primo momento, risponde agli interrogatori in modo delirante, affermando di aver ucciso i familiari perché gliel’ha ordinato Dio in una visione. Successivamente, però, prende la penna e realizza una lunghissima, dettagliatissima memoria (le cui primissime righe, “Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello…”, sono proprio il titolo del libro), sorprendente per un contadino che afferma di sapere appena leggere e scrivere e che era da tutti considerato scemo o mezzo matto, in cui racconta nel dettaglio le sue motivazioni. Racconta di una situazione familiare disastrata, del padre che, a suo dire, da anni era ingiustamente vessato e perseguitato dalla moglie, madre di Pierre, donna cattiva, egoista, meschina, avida e prepotente. Un racconto penoso, fra liti per motivi economici, la morte di un altro fratellino, riportato con estrema vivezza (i curatori dell’edizione hanno mantenuto la struttura, l’ortografia e la punteggiatura dell’originale, e allo stesso criterio si sono conformati i traduttori italiani) e stupefacente precisione di dettagli, in cui protagonista, più che Pierre testimone della rovina della sua famiglia, emerge suo padre, una specie di Giobbe ignaro che sta per accadergli ben di peggio. Affezionatissimo al padre, Pierre finisce per convinversi di doverlo liberare della donna che gli sta rovinando la vita, della sorella, sua alleata, e nel suo delirio progetta di uccidere anche il fratellino, perché amava la mamma e perché, poiché il padre lo aveva caro, ucciderlo avrebbe spento qualsiasi residuo di amore che il genitore poteva provare per lui, Pierre, e quindi evitare che soffrisse quando Pierre, votato al martirio per lui, sarebbe stato condannato a morte per il crimine compiuto. Il massacro in sé è trattato da Pierre in poche righe, e segue il racconto del suo peregrinare nei boschi, la realizzazione di quel che ha fatto, la disperazione, i tentativi di suicidio, i propositi di consegnarsi alla giustizia, l’indecisione, i tentativi di farsi passare per pazzo una volta arrestato.
Seguono, nel dossier, gli atti del processo, in cui la questione centrale fu stabilire se Pierre Rivière fosse sano di mente o pazzo, e quindi potesse essere responsabile delle sue azioni o no. Solo da pochi anni, infatti, in Francia erano state introdotte le circostanze attenuanti e la valutazione sullo stato mentale dell’imputato: al caso si interessarono dunque i più eminenti specialisti del tempo di una branca della medicina relativamente nuova, la psichiatria: chiaramente la memoria di Rivière e le testimonianze vennero usate per giungere a interpretazioni diametralmente opposte: i giudici cercarono di trovarvi la prova della sua normalità, i medici della sua follia. Il processo si concluse con una condanna a morte (novembre 1835), anche se nella sentenza la giuria non poté trattenersi dall’esprimere qualche dubbio: decisivo fu l’intervento di un gruppo di eminenti e influenti medici, che portarono alla concessione della grazia e alla commutazione della pena nel carcere a vita. La conclusione di questa cupa vicenda è però altrettanto dolorosa: Pierre Rivière si suicidò nella sua cella nel 1840.

Come “confessano” anche i curatori, gli atti del processo e soprattutto, naturalmente, la Memoria hanno una “bellezza” sinistra talmente potente, un “gusto” narrativo che la lettura scorre rapida, come un romanzo nero che precipita inesorabile nella catastrofe. Come ho già detto, per tutto il tempo nella mia mente non c’era tanto Pierre Rivière, sebbene fin dal titolo (“Io, Pierre Rivière…”) i curatori vogliano metterlo con forza al centro del discorso, quanto suo padre. Ma non è solo la memoria, che pure è il documento più sconvolgente, a stregare il lettore contemporaneo, anche le testimonianze degli abitanti del villaggio, con i loro racconti terrorizzati, malevoli, dubbiosi, sconvolti, i ritagli di stampa, il dossier con le differenti ipotesi sulla follia o sulla lucidità dell’imputato contribuiscono a creare questo “miracolo” archivistico. Proprio una “bella” (bella? Tragica, emozionante, dolorosa, spaventosa) lettura, nella prima parte. E la seconda parte?

La seconda parte, con i saggi di Michel Foucault e dei suoi allievi, è incomprensibile. Forse due contributi si salvano, quello di Blandine Barret-Kriegel sull’accostamento parricidio-regicidio e quello di Robert Castel sulle diverse conclusioni tratte dalla Memoria dai giudici e dai medici. Del resto, non c’ho capito niente. E dire che non vedevo l’ora di leggere la ricchezza delle interpretazioni e delle suggestioni che un documento tanto originale e tanto prezioso poteva donare. Delusione tremenda, tanto più che il documento che precedeva offriva tantissimi spunti all’analisi. Questo mi preoccupa perché avevo intenzione di leggere un altro libro di Foucault, Sorvegliare e punire: se è scritto allo stesso modo, sarà una fatica sprecata.

Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello…, a cura di Michel Foucault (trad. Alessandro Fontana e Pasquale Pasquino), voto = 2,5/5

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Se potessi avere

Visto sul catalogo della casa editrice il Mulino, questo libro presenta una serie di frammenti, in genere molto brevi (2-3 pagine in media), selezionati fra le testimonianze conservate nell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano (Arezzo), un’istituzione che raccoglie diari, lettere, memoriali, autobiografie di gente “comune”, dalle quali si colgono tanti preziosissimi spunti di ricerca.

Il filo conduttore che i curatori hanno voluto dare a questa antologia è quello del denaro. Sono storie in cui, 9 volte su 10, il denaro è al centro del discorso per la sua mancanza, sono rari i racconti di “successo”: ci sono, quindi, tanta sfortuna e tante amare recriminazioni, ma allo stesso tempo anche voglia di fare, audacia, inventiva, solidarietà.

Naturalmente non c’è solo il denaro in queste pagine, o meglio il tema del denaro è anche un pretesto per parlare (e leggere) d’altro: lettere d’amore, diari, crisi personali, successi e rivalse (pochi), dalla fine del XVIII secolo fino ai primi anni Duemila, che vedono protagonisti tanti, diversissimi personaggi: il tenore che negli anni trenta dell’Ottocento canta alla corte di Spagna, l’emigrato toscano in Francia, il giovane orfano che, nei primi anni del Novecento, tiene nascosta alla madre ansiosa l’iscrizione al sindacato, l’adolescente fantasioso che negli anni della prima guerra mondiale fa uscire un curioso “giornale” con le notizie di famiglia, il commissario prefettizio tutto d’un pezzo che, in epoca fascista, viene mandato in un paesino siciliano controllato dalla mafia, i due giovani che organizzano la “fuitina”, la ragazzina che accumula i soldi della paghetta per comprarsi lo stereo negli anni ottanta, il consulente finanziario sempre più vittima dello stress, la precaria che deve difendersi dalle avances del capo.

L’unico “difetto” del libro è che… sono appunto frammenti, troppo brevi: abbiamo solo un rapidissimo flash su queste vite, si cambia pagina, epoca, protagonisti, e non sapremo mai (a meno di non andare a Pieve Santo Stefano a consultare l’originale, ovvio!) come finisce “la storia”.

Se potessi avere. Memorie degli italiani ai tempi della lira, a cura di Diego Pastorino, voto = 3/5

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The Italian Boy

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Dopo Vanity Fair, non riesco a “schiodarmi” dalla Londra di inizio ‘800! A dire il vero, dopo quel mattone (piacevolissimo, ma pur sempre un mattone!), non mi sarebbe dispiaciuto leggere qualcosa di leggero, breve e in italiano, ma non ho trovato nulla di “adatto” (pur avendo casa piena di libri! Ma se per un certo titolo non è arrivato il “momento giusto”, non c’è nulla da fare), perciò, fedele al proposito di leggere anche qualche saggio, ho iniziato questo The Italian Boy, che venne fuori dai “suggerimenti automatici” (basati sui libri presenti nella propria libreria) di Goodreads.
A una primissima impressione, dunque, visti anche i caratteri piccoli piccoli del testo, ho immaginato che sarebbe stata una lettura impegnativa e che mi avrebbe tenuta occupata vari giorni: niente di più sbagliato, è un saggio veramente ben fatto e appassionante, l’argomento, benché macabro (e i passaggi forti non mancano), è innegabilmente “stuzzicante”, tanto è vero che il libro l’ho finito in appena tre giorni.

Se si pensa ai “ladri di cadaveri”, che rifornivano illegalmente i teatri di anatomia (l’unico mezzo ufficialmente consentito di procurarsi cadaveri da dissezionare a scopo di studio era chiedere i corpi dei condannati alla pena capitale: ma, diminuendo col tempo le esecuzioni e aumentando gli studenti, ben presto questi non furono più abbastanza), viene subito in mente il caso più celebre, quello dei famigerati Burke e Hare di Edimburgo, che, nel 1827-28, ebbero l’idea di procurarsi autonomamente la “materia prima”: i due serial killer fecero 17 vittime prima di essere arrestati e processati, Burke venne impiccato, Hare, che accettò di tradire il complice e confessare in cambio dell’immunità, fu rilasciato e la sua fine è ignota. Il caso, all’epoca, destò un enorme scalpore e seminò il panico e l’odio popolare verso queste figure inquietanti ma non poi così insolite, i cosiddetti resurrection men, indispensabili per gli anatomisti, legati a doppio filo a quel commercio poco dignitoso e costantemente sul filo del ricatto.

Tuttavia, nonostante lo “scandalo Burke & Hare”, famoso e ispiratore di artisti e scrittori, fra cui Stevenson, poco cambiò nell’immediato relativamente ai mezzi con cui le scuole di anatomia si procuravano “soggetti”; il tanto atteso Anatomy Act del 1832 (l’atto con cui si destinavano alla scienza i corpi dei defunti senza familiari che li reclamassero, mettendo fine alla pratica dei furti di cadaveri) fu piuttosto dovuto, almeno in parte, a un altro caso, stavolta nel cuore dell’Impero, a Londra, che all’epoca infiammò l’opinione pubblica e che però oggi è quasi dimenticato: il caso del “ragazzo italiano”.

Nel novembre del 1831 tre individui, John Bishop, Thomas Head e James May, noti resurrection men, o trafugatori di cadaveri, cercarono di vendere agli addetti del King’s College il corpo di un ragazzino di circa 14 anni; l’aspetto del cadavere però era tale da dare adito a sospetti: era molto fresco e sembrava anzi non essere stato affatto sepolto. I tre vennero arrestati e sottoposti a un processo che per gli standard attuali aveva basi piuttosto fragili: tanto per cominciare, l’identità della vittima non fu mai accertata oltre ogni dubbio. Divenne nota come il povero “Italian boy” perché vari testimoni credettero di riconoscere il cadavere di un giovane mendicante italiano, Carlo Ferrari: inutile dire che il tocco di “esotismo” e “sentimentalismo” funzionò alla grande sulla stampa. Poco chiara, a causa delle insufficienti conoscenze mediche dell’epoca, anche la causa della morte; soprattutto, in un sistema in cui la colpevolezza dell’imputato si accertava praticamente solo tramite una confessione o una testimonianza oculare, quello che l’accusa riuscì a mettere insieme furono elementi sospetti ma pur sempre indiziari, fatti incriminanti (nel giardino della casa di Bishop vennero dissotterrati vari indumenti, ad esempio), testimonianze che collocavano in modo più o meno sicuro la presunta vittima nel quartiere dove vivevano due degli accusati, nonché ovviamente la sordida reputazione dei tre.
Ciò nonostante, questo bastò a convincere la giuria: Bishop, Head e May furono ritenuti colpevoli di omicidio e condannati a morte. Nei giorni precedenti l’esecuzione, comunque, Bishop e Head rilasciarono una confessione in cui ammettevano quello e altri due omicidi (di una povera donna e di un altro mendicante giovanissimo, sempre allo scopo di procurarsi cadaveri da vendere), scagionando però May che, a detta loro, nulla sapeva della provenienza del cadavere: May fu quindi graziato (non fu molto fortunato, comunque: morì poche settimane dopo sulla nave-prigione che avrebbe dovuto portarlo in Australia), gli altri due impiccati di fronte a una folla festante il 5 dicembre 1831 (e naturalmente i loro corpi furono subito messi a disposizione degli anatomisti).

Il saggio fa un’appassionante cronaca dell’antefatto, dell’arresto e del processo, dando conto delle incertezze e dei colpi di scena nelle indagini, delle reazioni dell’opinione pubblica, e tenendo fino all’ultimo in sospeso sull’esito della vicenda (e già così il lettore è contento), ma ovviamente non si limita a questo, traendone spunto per avventurarsi lungo svariate piste di ricerca.

La principale è il mondo criminale dei furti di cadaveri, la percezione di quest’atto nella mentalità dell’epoca, e anche una panoramica sullo stato della professione medica, e soprattutto sull’insegnamento della medicina, con un gran numero di istituzioni concorrenti, in un clima da “libero mercato” che lascia spazio all’iniziativa privata (ma rischia di apparire anche un po’ anarchico) e che ritiene sempre più strette e limitanti le regolazioni vigenti; la posizione dei medici era in effetti delicatissima e compromettente, sicuramente non del tutto “innocente” (tutti sapevano da dove venissero i corpi usati nelle autopsie, e l’equilibrio, sul filo del ricatto, fra resurrezionisti e anatomisti si fondava su un silenzio complice; in effetti il caso “Italian boy” fu singolare poiché la denuncia partì proprio da un medico, Richard Partridge). Gli stessi organi giudiziari, dando prova di una certa ipocrisia, usavano spesso un “occhio di riguardo” verso questi attori in questo commercio.

Le difficoltà nell’identificare la vittima suggeriscono poi alla storica riflessioni sulla nascente immagine della metropoli come luogo in cui è possibile essere risucchiati, perdersi, diventare perfettamente “anonimi” e invisibili, scomparire da un giorno all’altro senza che nessuno ci cerchi, o non sapere chi sia o cosa faccia il vicino che vediamo tutti i giorni e scoprire poi che è un assassino. Gli organi di governo di Londra cominciavano contemporaneamente ad affrontare anche il “problema” dei poveri il cui numero andava continuamente crescendo: Wise tenta di dare un quadro della miseria della città, nei suoi aspetti più disperati ma anche, al contrario, più “variopinti”, la vasta folla di personaggi “caratteristici”, spesso stranieri e in buon numero italiani, che si esibivano come “artisti di strada” per guadagnare qualcosa (la stessa presunta vittima, Carlo Ferrari, mostrava dei topolini bianchi in una gabbia), e che attirarono l’attenzione anche di celebri scrittori di epoca vittoriana come Dickens, nonché dei provvedimenti e delle istituzioni caritatevoli che cercarono di portare in qualche modo sollievo a questa fascia di popolazione, compatita ma forse più che altro temuta.

Lo svolgimento delle indagini consente di parlare anche della nuova, più moderna, forza di polizia che nacque proprio in quel periodo e che, non senza dover vincere una certa opposizione, gradualmente soppiantò le varie forme di sorveglianti e guardie, anche di natura privata, legate più che altro alla singola unità parrocchiale, che si occupavano, spesso male e dando adito a innumerevoli conflitti di competenze, di mantenere l’ordine in città, e della situazione nelle prigioni.

Interessante anche il capitolo sui primi provvedimenti contro i maltrattamenti sugli animali, ma… che c’entrava? A dirla tutta, sembrava materiale per un’altra ricerca che è stato inserito qui un po’ a forza (come “intermezzo”).

Ho trovato su Internet un’intervista all’autrice, Sarah Wise, in cui parla del libro. E poi ancora ecco la pagina di Wikipedia sugli “originali” Burke & Hare e quella sui “London Burkers”.

Sarah Wise, The Italian Boy, voto = 4/5
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Isaac’s Storm

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Ho scoperto questo libro da questo blog post: presentava quelli che, per l’autrice, sono i migliori 10 saggi per chi è appassionato di romanzi, che sono insomma scorrevoli e piacevoli da leggere tanto quanto i romanzi. Dell’elenco faceva parte, oltre a In nome del cielo di Jon Krakauer, che avevo già letto (e che infatti è bellissimo), anche questo, sul devastante uragano che, l’8 settembre 1900, rase al suolo la ricca e vivace città di Galveston, Texas. In effetti lo stile è piano e divulgativo, l’autore, come in un “romanzo”, seleziona, sulla base della ricca documentazione esistente, una serie di personaggi che segue passo passo nei giorni, nelle ore precedenti la catastrofe, nei momenti di terrore e di panico in cui infuria la tempesta e in quelli difficili e per alcuni strazianti del post-uragano. Ma, come si evince anche dal titolo, il vero protagonista è Isaac Cline, il capo della locale stazione metereologica, un uomo che, fino a quel tragico giorno, era il paradigma del self-made man americano, intraprendente, sicuro e soddisfatto di sé, laborioso, infaticabile, baciato dal successo, fiducioso nella scienza e nel futuro: gli errori di valutazione compiuti, da lui e da molti altri, in quel frangente, la sua incapacità di prevedere la tragedia imminente scuoteranno dalle fondamenta questo suo castello di certezze, e ne pagherà un prezzo molto caro, venendo colpito proprio negli affetti più cari.

Tutta la prima parte del saggio è dedicata a illustrare la vita, la personalità e la carriera di Cline prima del suo arrivo a Galveston, ma soprattutto a dare un quadro della città nella sua favolosa crescita di fine XIX secolo, e a ricostruire tutta una catena di errori umani e di colpevoli trascuratezze, la presunzione di uomini ormai convinti di poter controllare la natura, ma anche una incredibile serie di circostanze che contribuirono a creare, fin dalle primissime, microscopiche particelle che si aggregano nel cielo sopra l’Africa occidentale, l’uragano “perfetto”, che inizia poi il suo viaggio lungo l’Oceano Atlantico, cresce a dismisura e raggiunge prima Cuba, quindi il Golfo del Messico. Si alternano quindi capitoli che presentano i personaggi in scena (un ruolo importante è anche quello del fratello minore di Isaac, Joseph, anch’egli metereologo e da sempre in strisciante competizione col maggiore: la tragedia che colpirà la città sarà anche un traumatico momento di rottura nel loro rapporto), ad altri in cui la presenza umana svanisce, ed è solo la silenziosa, inarrestabile e ineluttabile potenza della natura che si dispiega: man mano che questa “tecnica” viene portata avanti, aumenta il senso (di sapore effettivamente romanzesco o “cinematografico”) di tragedia incombente.

Oltre alle conoscenze ancora insufficienti dell’epoca, parte delle ragioni per l’inesistente preavviso dato alla popolazione sta anche nelle vicende interne del Weather Bureau, su cui Larson si sofferma: il Weather Bureau, la struttura del governo USA predisposta alle previsioni metereologiche, era all’epoca relativamente recente ed era ancora guardato con diffidenza o con sufficienza non solo dall’opinione pubblica, ma dallo stesso governo. La dirigenza, più attenta alle ripercussioni sull’immagine dell’ufficio di un possibile “falso allarme” che ad altro, fece di tutto per sminuire la portata della tempesta, e sbagliò completamente nel calcolarne la rotta. È anche vero che quest’uragano ebbe un comportamento e un tragitto anomali rispetto ad altri osservati in precedenza; infine, gli allarmi provenienti dalle stazioni metereologiche di Cuba vennero ignorati anche a causa di una buona dose di orgoglio nazionalistico nei confronti di scienziati spagnoli ritenuti ignoranti e “impressionabili”, e più in generale Larson osserva che il sentimento diffuso di fiducia illimitata nell’uomo e nelle macchine che pervadeva la mentalità di inizio XX secolo, e il clima di euforia e orgoglio che il progressivo e apparentemente inarrestabile affermarsi, proprio in questo periodo, di una nazione giovane quali gli Stati Uniti come grande potenza, abbia spinto a sottovalutare i pericoli che l’elemento naturale era in grado di scatenare.

Purtroppo il “turno” di questo libro è capitato in un periodo scomodo, fra viaggi fuori città e impegni vari, e la lettura è risultata molto spezzettata, soprattutto per la prima parte, che ne ha più sofferto: verso la metà infatti ero abbastanza insoddisfatta, per un antefatto che si stava trascinando a lungo. Ho poi rivisto il mio giudizio, anche alla luce della seconda metà del libro, che ho potuto leggere in condizioni più favorevoli, incentrata sulla descrizione del cataclisma e quindi più “intensa” ed emozionante, e ho compreso che anche la prima parte era utile all’insieme così com’era. Oltre tutto anche altre ragioni contribuivano a rendere l’esperienza di lettura un po’ pesante: prima o poi, si spera, gli USA si decideranno ad adottare il sistema internazionale di unità di misura, perché qui di fare tutte le volte le conversioni fra gradi Fahrenheit e Celsius, fra pollici e centimetri, eccetera, alla lunga non ho avuto più voglia e, siccome sono dati importanti per comprendere i fenomeni descritti, sono consapevole del fatto di aver perso parecchio. Mi dispiace, ma è colpa loro!

Una volta iniziato il libro mi sono accorta che Erik Larson è autore anche de Il giardino delle bestie, che forse vorrei leggere: non sono rimasta particolarmente colpita da questo modo di scrivere un saggio come se si stesse raccontando una storiella (anche se, non lo nego, le pagine dedicate all’infuriare dell’uragano sono spaventose ed emozionanti), né dalle frasette messe a fine capitolo a mo’ di cliffhanger, trovata un po’ “teatrale”, per cui non so se mi piacerà.

Erik Larson, Isaac’s Storm, voto = 3/5
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Mrs Robinson’s Disgrace

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Nel 1850 la signora Isabella Robinson, già vedova e moglie in seconde nozze dell’uomo d’affari Henry Robinson, conosce a una festa il dottor Edward Lane, di una decina d’anni più giovane e anch’egli sposato. Immediatamente la donna si sente fortemente attratta da costui e, poiché ha l’abitudine di tenere un diario, comincia a registrare giorno per giorno il crescere di questa passione inconfessata, accanto alla frustrazione e all’infelicità per la vita matrimoniale accanto a un uomo piuttosto arido e spesso lontano per lavoro, esprimendo i propri sentimenti con una franchezza possibile solo in un documento tenuto gelosamente segreto. Nel 1854, infine, è possibile che Isabella ed Edward abbiano effettivamente un rapporto sessuale (ma il diario non è esplicito); due anni dopo, nel 1856, il diario finisce accidentalmente nelle mani di Henry, che lo usa come prova principale nella causa di divorzio per adulterio che avvia contro la moglie e il presunto amante, uno dei primi procedimenti svolti secondo un iter più rapido e moderno. Questo documento, che da privato diventa clamorosamente pubblico e viene divulgato in lungo e in largo, viene usato dalla storica Kate Summerscale per indagare la mentalità, le ansie, i costumi e i cambiamenti della società vittoriana e per riflettere su un momento della storia in cui stanno iniziando a prendere forma, spesso per reazione a quelle dominanti, molte delle idee che ancora oggi sentiamo attuali. La struttura del saggio è chiaramente divisa in due parti, nella prima si seguono passo passo le vicende della vita di Isabella così come sono annotate nel suo diario, nella seconda invece assistiamo alle fasi del processo, in cui, pur continuando a essere costantemente presente come “oggetto” delle discussioni e dei dibattiti, Isabella come “soggetto” quasi si eclissa e si auto-impone il silenzio.

Già avevo apprezzato, della stessa autrice, Omicidio a Road Hill House: anche in questo saggio penetriamo nel privato della famiglia di epoca vittoriana, cellula fondamentale della società, celebrata e “sacralizzata” ma allo stesso tempo spesso teatro, nelle sue stanze gelosamente custodite dallo sguardo degli estranei e nell’atmosfera talvolta soffocante, di tragedie e violenti contrasti (lì il barbaro omicidio di un bambino, qui la triste vicenda di una moglie infelice e sempre più disperata). Devo ad una utente di Goodreads la scoperta, qualche mese fa, di questo libro, che ho pensato fosse più opportuno leggere in lingua originale, per sentire davvero la “voce” di questa donna (ma l’edizione italiana è uscita proprio in questi giorni presso Einaudi).

Così come avveniva in Omicidio a Road Hill House per la letteratura poliziesca e il “fenomeno” delle cronache giudiziarie, Summerscale è molto attenta a sottolineare come spesso la letteratura dell’epoca presenti rimandi alla cronaca, o viceversa quanto gli episodi di cronaca trovino inaspettati antecedenti nella letteratura: qui ella ripropone più volte il parallelo fra Isabella Robinson e l’eroina di un romanzo uscito proprio in quegli stessi anni e subito investito dallo scandalo e dalle polemiche, Madame Bovary di Flaubert. Come Isabella, anche Emma Bovary è una signora dell’agiata borghesia intrappolata in un matrimonio sbagliato, annoiata, depressa e irrequieta e con appetiti che la società condanna, una figura “nuova”, attuale, destabilizzante e inquietante e probabilmente interprete dei sentimenti di tante donne reali. Più in generale, è tutto il fenomeno della letteratura scritta da donne e per donne, dei romanzi “sentimentali” che rischiano di eccitare e corrompere gli animi, a essere, in questo periodo, al centro del dibattito, originato da casi come quello che vide protagonista la signora Robinson.

Sono tanti i temi e gli argomenti cui la vicenda consente di accennare, tra questi l’affermarsi della scienza nella vita quotidiana delle persone (le partorienti anestetizzate col cloroformio, le nuove terapie e la “moda” delle cure d’acqua, i primi tentativi di educazione sessuale, un’attenzione più spiccata al corpo e alla materia piuttosto che allo spirito), ma soprattutto, ovviamente, la condizione della donna nel matrimonio e le prime sperimentazioni per rendere le pratiche di divorzio più semplici e alla portata di tutti. Proprio in quegli anni, infatti, il Divorce Act approvato dal governo britannico cercava di sottrarre la giurisdizione sul matrimonio al foro ecclesiastico, e questo nuovo approccio vide immediatamente il moltiplicarsi delle cause di divorzio, fra lo sconcerto dei benpensanti e sicuramente degli stessi promotori, che certamente non avevano preventivato simili conseguenze, a segnalare senza ombra di dubbio la situazione “ribollente” di contraddizioni e di storture dell’istituzione matrimoniale quale la si era intesa per secoli, che finalmente trovava sfogo. Ovviamente Summerscale non manca di sottolineare il doppio metro di giudizio in uso all’epoca: a prescindere dalle circostanze del caso singolo preso in esame (lo stesso Henry Robinson aveva notoriamente un’amante e due figlie illegittime), apprendiamo ad esempio che per ottenere il divorzio un marito doveva provare l’adulterio della moglie (tra parentesi, il divorzio consensuale si ebbe in Gran Bretagna solo nel 1969, da cui tutta una serie di adulterî fasulli messi appositamente in scena di comune accordo dai due coniugi e “scoperti” opportunamente per sbloccare il procedimento), mentre a parti invertite ciò non era sufficiente, perché la moglie doveva anche essere in grado di dimostrare almeno una fra le accuse di abbandono, crudeltà, bigamia, sodomia o bestialità.

Dalle sofferenze private di Isabella Robinson e di altri personaggi di spicco del tempo (come George Drysdale, guarda caso cognato di Edward Lane, figura dalla biografia romanzesca che dalla propria adolescenza infelice trasse spunto, divenuto medico, per formulare pioneristiche idee di liberazione sessuale) si passa così ad esaminare le costrizioni e le repressioni dell’epoca, le teorie scientifiche allora in voga, come la frenologia (lo studio dei crani), che, pur ormai universalmente rigettata come disciplina, tuttavia per la prima volta iniziava a dare la giusta importanza, nello sviluppo dell’individuo e nella ricerca del benessere psico-fisico, alle pulsioni e alle inclinazioni della mente (la stessa Isabella era grande amica di uno dei principali esponenti di questa scienza, George Combe).

Naturalmente la linea di difesa che gli avvocati di Isabella tentarono di far passare fu che il contenuto del diario era frutto di fantasie di una donna eccitabile, probabilmente erotomane o ninfomane e vittima del “morbo uterino”, la definizione classica con cui si raggruppavano molti stati di malessere fisico e mentale delle donne. È piuttosto triste leggere come per scagionarsi, e scagionare soprattutto Lane, Isabella abbia accettato di fare la figura della pazza malata, con tanto di testimonianze di medici e periti (“Isabella’s defence was far more degrading than a confession of adultery would have been”).
Infatti, se il lettore di oggi si sente quasi “in colpa” a sbirciare fra le pagine del diario privato di Isabella, la sua curiosità è niente in confronto alla ferocia con cui ella venne letteralmente fatta a pezzi e umiliata, dai suoi stessi avvocati per le esigenze della difesa, dagli avvocati di Lane, dagli amici del dottore (ed ex amici di lei) e dalla stampa (Lane godeva di un certo credito come medico e poté contare sull’appoggio di molti organi di informazione, che ne proclamarono energicamente l’innocenza): la veemenza degli attacchi fa capire quanto questi uomini siano inorriditi e terrorizzati di fronte alla “minaccia” di questo diario “esplosivo”, e come sentano quasi la necessità di derubricarlo a fantasie di una pazza. Naturalmente, come dicevo sopra, la condanna si allarga ai libri e ai romanzi, che con la loro influenza nefasta condividono parte della colpa. L’amara ironia è che gli unici che invece insistono nel ritenere Isabella una persona assolutamente sana e razionale sono Henry e i suoi avvocati, chiaramente interessati a che il diario sia preso sul serio.

È una lettura molto “densa” di spunti, che necessariamente sono trattati “a volo d’uccello”, e anche dolorosa, anche se meno appassionante di Omicidio a Road Hill House che aveva in più la componente mystery. Questo è il primo saggio in ebook che leggo e devo ammettere che la consultazione delle note è assai macchinosa e scomoda: alla fine di ciascun capitolo c’è un link che porta alle relative note, ma chiaramente sarebbe meglio leggerle via via, per non perdere il collegamento col testo, con dei link in corrispondenza dei determinati passaggi cui le varie note si riferiscono. Non so se in altri ebook-reader più sofisticati questa funzione è più evoluta, o se sia una limitazione del file che avevo io: se così non è, trova conferma quel che già pensavo, e cioè che, per ora, è con la narrativa che può risultare vantaggioso scegliere il formato elettronico, mentre per la saggistica molto meglio il caro vecchio libro cartaceo, che puoi spulciare e consultare con minore fatica.

Kate Summerscale, Mrs Robinson’s Disgrace, voto = 3,5/5
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I fogli del capitano Michel

Un libro che parte da una scoperta d’archivio, quasi casuale (e già mi commuovo): le fotografie, e soprattutto i biglietti con cui al fronte si comunicavano ordini e informazioni, conservati dal capitano Ersilio Michel, ufficiale sul fronte del Monte Ortigara nell’estate del 1916, e donati al Museo del Risorgimento di Vicenza.

Tali biglietti sono stati pazientemente riordinati (grazie all’indicazione della data, ove presente, o tramite riferimenti incrociati e confronti, se mancava) da Claudio Rigon, professore di fisica, fotografo dilettante e appassionato di montagna, che ora li ripropone in questo suo libretto facendo loro raccontare l’attività quotidiana del fronte, della guerra di trincea, i lavori, gli approvvigionamenti, le perdite umane, ma anche aiutandoci a cogliere da essi quel che non dicono esplicitamente ma che lasciano trasparire, le frustrazioni, gli stati d’animo, i rapporti umani, persino le diverse personalità degli autori, capitani, colonnelli, tenenti, sottotenenti, ufficiali medici, responsabili delle salmerie e dei magazzini di scorte, cappellani militari. Insomma, gli appartenenti ai gradi della gerarchia militare dell’esercito italiano nel primo conflitto mondiale, cui, consapevolmente o meno, come ricorda anche Rigon, tendiamo ad attribuire esclusivamente, influenzati da una certa storiografia e dalla memorialistica, caratteristiche di incompetenza, scarsa preparazione, pressappochismo, nei casi migliori, arroganza, disprezzo per i sottoposti, cieca cocciutaggine e noncuranza per i sacrifici inutili e le perdite, nei casi peggiori. Quest’immagine conserva una sua parte di tragica verità, ovviamente: si veda anche quanto dico a commento del bel volume Plotone di esecuzione. Rigon, e il lettore con lui, però, deve ricredersi, almeno parzialmente, da questa visione troppo monocolore apprendendo dalla viva voce di questi uomini le attenzioni, gli accorgimenti, le fatiche, il senso di responsabilità e del dovere di cui danno prova.

Inframmezzata ai vari biglietti, la voce dell’autore, Rigon: efficace e apprezzabile quando raccorda i frammenti, fornisce dettagli in più sul contesto di quei giorni di guerra o sugli antefatti, e soprattutto esprime le sue impressioni di scopritore, le sue reazioni emotive al contenuto, all’aspetto, anche alle calligrafie e ai diversi stili di scrittura, facendoci capire su quanti livelli un semplice documento d’archivio può fornire informazioni e metterci in contatto col passato. Di minore interesse, per me, i resoconti delle sue escursioni per tentare di ritrovare i luoghi in cui si erano mossi il capitano Michel e i suoi uomini: mi rendo conto che in un libro come questo la componente spaziale è importante, ma io, purtroppo, non essendo un’esperta della montagna e in generale neanche un’eccelsa osservatrice, nonostante gli sforzi di Rigon nel descriverla non riuscivo a farmene che un’idea confusa e generica.

Sarebbe stata forse una buona idea inserire qualche immagine dei biglietti, oltre a quello che si vede in copertina.
Non mi è piaciuta, però, una frase nei Ringraziamenti e che credo si possa forse imputare alla scarsa conoscenza di Rigon del mondo degli archivi, cui si accostava, al momento di iniziare il lavoro sul libro, magari per la prima volta: “[…] penso sia insolito non trovarsi mai di fronte, in un archivio, a porte o armadi chiusi ma solo all’invito ad aprirli, a portare le cose alla luce, a farne uso” (p. 201).
Per chi lavora negli archivi questo è un commento abbastanza bizzarro, e un po’ ingiusto, essendo anzi uno degli obiettivi principali proprio valorizzare il materiale conservato, “portare le cose alla luce”, tramite riordinamenti, stesura di inventari, pubblicazioni, mostre. Rigon qui sembra fermo alla concezione stereotipata di archivio come luogo polveroso, oscuro e semi-inaccessibile.

Claudio Rigon, I fogli del capitano Michel, voto = 3,5/5
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Plotone di esecuzione

Recensioni arretrate 1/5: a causa della mancanza di tempo/voglia, sono rimasta indietro con le consuete recensioni addirittura da maggio. Mi hanno tormentata per giorni, finalmente sono in grado di inserirle una dopo l’altra.

Un’altra fortunatissima scoperta in un mercatino dell’usato, edizione degli anni ’70 che, purtroppo, aprendola e sfogliandola (e passando attraverso i numerosi spostamenti del viaggio in USA), ha finito per rovinarsi e scollarsi.

Sono raccolte qui svariate sentenze del periodo 1915-1918 emesse dai Tribunali militari italiani nei confronti di soldati, per lo più di basso grado, per lo più giovanissimi, provenienti da ogni parte d’Italia, giudicati colpevoli di diserzione, disfattismo, autolesionismo, propaganda contro la guerra, o la cui corrispondenza era incappata nelle maglie della censura (i curatori hanno cercato di comprendere tutte le tipologie di reato possibili).

L’argomento della prima guerra mondiale, in quanto trauma collettivo di un intero continente, mi interessa da tempo (ricordo, anni fa, la visione dei film La grande guerra di Monicelli o Un anno sull’altipiano, o lo studio del saggio Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti di George L. Mosse per l’esame di storia contemporanea): soprattutto, come altri grandi eventi della storia, cerco di recuperarne una visione “dal basso”, più che politico-istituzionale o in termini di strategia militare. Ecco perché ho in programma di leggere anche titoli di recente acquistati come Compagnia K o i diari dei soldati, o La Grande Guerra dei piccoli uomini, o perché ho giudicato profondamente bello un libro come Bollettino di guerra o mi sono dedicata con passione alla trascrizione del diario della prigionia del mio bisnonno Mario (prima, seconda e terza parte).

Qui, in ciascuna sentenza, il testo, sfrondato dai curatori delle formule burocratiche, ricorda in modo più o meno sintetico le circostanze del reato: ne risultano quadri che, se alla lunga rischiano di diventare ripetitivi, hanno però tutta la tragicità del vissuto individuale e riescono a rendere l’idea, specie quando si fa ricorso alla trascrizione di parti di discorso diretto o di brani di lettere scritte dai soldati, dell’estrema stanchezza, prostrazione, paura e rabbia, per lo più impotente, dei giovani coinvolti.

Interessanti anche i saggi iniziali dei due curatori, in cui viene sottolineata anche la grande discrezione che finiva per essere lasciata ai giudici nell’interpretazione delle norme (dovuta anche all’inadeguatezza di un codice penale militare pensato per gli eserciti del XIX secolo alle dimensioni immani e alle modalità del conflitto in atto), che dava luogo talvolta a sconcertanti disparità di trattamento.

E. Forcella, A. Monticone, Plotone di esecuzione, voto = 3,5/5
Non in commercio

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La vita privata. L’Ottocento

Facevano prima a intitolarla “La vita privata in Francia”, piuttosto che “La vita privata in Occidente”… In quest’ultimo volume (in realtà l’opera si conclude con il quinto volume sul XX secolo, ma non lo leggerò), ancora più rari gli sconfinamenti dal terreno prediletto d’indagine, solo un capitoletto sull’Inghilterra (mentre quanto sarebbero stati interessanti sezioni dedicate, non dico all’Italia, ma alla Germania, agli Stati Uniti…): chiaro che, nell’Introduzione, i curatori tirino fuori la solita giustificazione dell’eccessiva vastità dell’argomento che quindi rende inevitabile una drastica limitazione dell’area geografica, ma sono quattro volumi che ripetono la stessa cosa, e allora dichiararlo fin dal principio e dal titolo, invece di imbarcarsi in un’impresa poi rivelatasi titanica, no?

A parte questo motivo di disappunto, comunque, questo è stato il volume più godibile, interessante e… comprensibile (vedi le mie precedenti annotazioni per chiarimenti). Chiaramente ciò è dovuto anche al fatto che la materia comincia, nel XIX secolo, a divenire meglio delimitata e meno “fumosa”, risulta sempre più legittimo e agevole rintracciare il confine che separa la vita “privata” da quella “pubblica” dell’individuo e, non ultimo, si moltiplicano, quantitativamente e qualitativamente, le fonti cui attingere, che diventano anche più varie (lettere, diari, romanzi, inchieste, statistiche ufficiali, articoli di giornale, processi, trattati medici, cartelle cliniche, e chi più ne ha più ne metta). In questo volume più che negli altri si avverte infatti il “lavoro” dello storico, che esamina le sue fonti e discute le tesi della bibliografia precedente.

Nel XIX secolo la vita privata si articola, ossessivamente, pervasivamente, sulla centralità della famiglia, totem e idolo che nel corso del tempo inizia a subire un progressivo sgretolamento, o che quanto meno vede allentarsi le sue maglie costrittive, ma che sostanzialmente domina incontrastata. E l’impressione contraddittoria è che, accanto al crescere dell’individualismo che spinge a realizzare le proprie ambizioni personali, o forse proprio a causa di ciò, all’interno del nucleo familiare, per lo meno negli ambienti della borghesia cittadina, l’atmosfera dominante sia ancora più claustrofobica, rigida, impegnata a controllare e regolare qualsiasi manifestazione dell’emotività che in passato: da qui una generale condizione di frustrazione e un’inedita “ansia” (inizia a serpeggiare quello che ormai conosciamo tutti col nome di “stress”) che attanaglierebbe l’uomo ottocentesco.
Ma ancora più interessante è la descrizione della situazione delle donne: confinate sempre più all’interno delle quattro mura della casa (molto più che nel passato, a differenza di quanto si potrebbe immaginare), relegate esclusivamente al ruolo di moglie e madre, valutate anzi solo in quanto riescono a conformarsi a questo ideale, e in generale considerate mai per sé ma solo in rapporto all’uomo, che ha il compito di proteggerle, dal mondo esterno, ma in fondo anche da loro stesse (perché la loro natura intrinsecamente inferiore e “uterina” le rende fragili, instabili, “isteriche”, irrimediabilmente dipendenti), viste alternativamente o come esseri angelici e influenze moralizzatrici o come femmes fatale corruttrici, leggere dei loro primi, timidi tentativi di contrastare questi schemi culturali (o, analogamente, delle prime ribellioni di altre categorie socialmente più svantaggiate come le classi operaie, i giovani, gli omosessuali) mi ha provocato una certa emozione.
Ancora una volta, bellissime le immagini nelle tavole in b/n fuori testo, però disposte un po’ a caso: una mancanza grave, secondo me, di queste opere è stato non aver inserito all’interno del testo dei riferimenti precisi (vedi fig. X) alle immagini che illustravano puntualmente il passo in questione.

La vita privata. L’Ottocento, a cura di P. Ariès e G. Duby, voto = 4/5
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Habemus papam

Ecco una mostra (Città del Vaticano, 7 dicembre 2006-9 aprile 2007) che davvero avrei voluto visitare, perché, a giudicare da questo catalogo, doveva essere meritevole.

Seguendo tutte le fasi che segnano la cosiddetta “sede vacante” della Chiesa, dall’agonia e morte del vecchio pontefice, alle esequie, dalle Congregazioni cardinalizie all’ingresso solenne dei cardinali in conclave, dalle votazioni alla proclamazione fino alla presa di “possesso” di S. Giovanni in Laterano del nuovo papa a cavallo attraverso Roma, gli oggetti e le opere d’arte esposti e i saggi del catalogo permettono di entrare in questo mondo di procedure e riti codificati e densi di significato, in questi momenti delicatissimi e pieni di fascino. Affascinante è vedere come, all’interno di una struttura che mano a mano si consolida e prende forma soprattutto con Gregorio X e la sua costituzione Ubi periculum (che cercava di evitare per il futuro il ripetersi di uno scandalo come il conclave di Viterbo durato ben 3 anni), la tradizione sia stata, nel corso dei secoli, senza mai perdere la propria identità, modificata, innovata, perfezionata, fino a divenire il meccanismo oliatissimo di oggi. Ho apprezzato moltissimo la varietà della mostra: non solo quadri e stampe (bellissime), ma anche abiti, fotografie, codici, oggetti di uso comune o molto particolari (come il martelletto che il Cardinale Camerlengo usava per accertarsi della morte del papa), che davvero coprono ogni aspetto dell’evento.

Interessanti quasi tutti i saggi, soprattutto nella prima parte, sui primi tempi ancora un po’ incerti quando l’elezione del nuovo papa non era ancora stata ben codificata, e, all’opposto, quello finale, sui conclavi del XX secolo. Un difetto è che, poiché le schede della mostra sono state compilate da vari studiosi diversi, si tende spesso a ripetere più volte le stesse cose.

Libro poi molto bello da leggere per me che, seppure per pochissimo, posso dire di essere quasi “entrata” in quel mondo (certo non in conclave!!). L’ultimo del 2005, il primo per me, fu davvero emozionante perché avevo la sensazione di assistere a un rito che aveva resistito fieramente e con coerenza per secoli, e che quindi davvero mostrava al mondo la forza di una tradizione millenaria. Se siete interessati al tema consiglio anche il bello (e bizzarro) romanzo di Roberto Pazzi, Conclave.

L’unica pecca è sempre la stessa, gli errori di stampa, e gli errori di punteggiatura, anche se qui meno che in altri clamorosi casi: evidentemente questi cataloghi di mostre (vedi Papi in posa, vedi La porpora romana) non ne possono essere immuni. Mah!

Habemus papam. Le elezioni pontificie da s. Pietro a Benedetto XVI, a cura di Francesco Buranelli, voto = 4/5
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