Archivi del mese: gennaio 2014

Furta sacra

Sorprendentemente, il tema di questo saggio, Furta sacra. La trafugazione delle reliquie nel Medioevo, risulta ancora attualissimo, a giudicare dalle notizie di questi giorni…

E va beh, ho voluto esordire con una battuta ad effetto, ma in realtà i confronti fra la cronaca di oggi e i furti di reliquie nel Medioevo sono improbabili: tanto per cominciare, all’epoca, a scassinare tombe e reliquiari e a portarsi via ossa e corpi erano spesso uomini di Chiesa, e tali furti erano celebrati e approvati dalla comunità e ampiamente pubblicizzati!

Un’altra occasione, dopo Image on the Edge, per scoprire un Medioevo molto meno “paludato” di quanto si immagini, e molto più disinvolto in materia di religione, tanto da suonare quasi scandaloso alle nostre orecchie. Per dirlo in modo più corretto, un altro esempio di come la sensibilità religiosa di allora si esprimesse in modo molto diverso.

L’importanza e il valore delle reliquie nel Medioevo sono ben noti, e Geary lo sottolinea soprattutto in relazione al periodo preso in esame, i secoli IX-XI, il cosiddetto Medioevo centrale, in cui il culto delle reliquie dei santi divenne tanto pervasivo che sembra addirittura offuscare, talvolta, la stessa devozione a Cristo. La generale instabilità politica e sociale e le frequenti, concrete minacce alla sicurezza (in questi secoli l’Europa conobbe le incursioni di saraceni, Ungari, Normanni, oltre alla conflittualità endemica fra i nobili locali) furono i motivi più evidenti per cui piccole e grandi comunità monastiche o diocesi compivano grandi sforzi per procurarsi protezione ultraterrena… senza trascurare naturalmente il prestigio dovuto al possesso della reliquia di un santo famoso, o le prospettive di ricavi economici se il santo attirava pellegrini alla sua tomba.

Certamente era possibile procurarsi reliquie in modo “legale”, tramite donazioni o acquisti. Esisteva anzi un vero e proprio business del traffico di reliquie, per il quale l’autore ricorda soprattutto la figura del romano Deusdona, vissuto nel IX secolo, che con i fratelli aveva messo su proprio un’impresa “di famiglia”, prelevando la “merce” dalle catacombe romane, all’epoca in stato di semi-abbandono e incustodite, e ripiazzandola poi presso abati, re e nobili del Nord Europa, o addirittura lavorava su “commissione” accettando “ordinazioni” per questo o quel santo. Ma, paradossalmente, venire in possesso di una reliquia attraverso il “volgare” commercio era considerato quasi più “disonorevole” che rubarla; oltre ciò, la convinzione diffusa era che fidarsi dei trafficanti di reliquie di “professione” esponesse maggiormente al rischio di essere truffati e di acquistare reliquie false (contrariamente a quanto comunemente si pensa oggi, si cercava di fare accertamenti sull’autenticità delle reliquie, solo che spesso l’unico “metodo” veramente praticabile era una sorta di verifica ex post: se la reliquia dava luogo a miracoli, si poteva “ragionevolmente” concludere che fosse autentica).

Questo spiega perché talvolta le narrazioni riguardino furti in realtà mai avvenuti, immaginari: è chiaro infatti che ci si trova di fronte a testi che non possono essere letti come “cronache”, ma che appartengono a un preciso genere letterario. Più importante di stabilire se furto ci fu o se avvenne esattamente come ci viene raccontato (e, inutile dirlo, più importante di sapere se la tale reliquia fosse autentica o meno), è capire perché si sia formata questa “tradizione” cui poi via via ciascuno scrittore finì per uniformarsi e cercare la propria giustificazione.

Il “saccheggio” non sempre avveniva senza il consenso del “derubato”: interessante l’accenno di Geary al ruolo attivo, o quanto meno cosciente e forse accondiscendente, del papa, vescovo di Roma, di fronte allo “shopping” di resti provenienti dalle catacombe dei primi cristiani da parte di monaci franchi: in un’epoca in cui la supremazia del vescovo di Roma non era ancora un fatto pienamente accettato, tornava comodo al prestigio papale l’altissimo valore tributato alle reliquie dei primi martiri romani, “distribuite” ed esportate nel resto d’Europa.

Non erano solo le reliquie provenienti da Roma a essere particolarmente ambite, comunque: altri luoghi da cui venivano trafugate (o da cui si diceva fossero state trafugate, che, per i fini della ricerca, è lo stesso) erano l’impero bizantino, il Nord Africa e la Spagna (sotto la dominazione musulmana): gusto per l’esotico, nonché il vantaggio di chilometri di distanza che potevano impedire rivendicazioni o smentite.

Se nel Nord Europa al centro di questi traffici erano soprattutto potenti abati, sovrani e nobili, in Italia erano la comunità cittadine ad attivarsi per assicurare alla città il possesso di un qualche santo: celeberrimi i casi di Venezia con s. Marco e di Bari con s. Nicola, che infatti si rivelarono, in entrambi i casi, mosse azzeccatissime per le future fortune politiche, economiche e religiose delle due località.

Interessante anche il capitolo sulla percezione di questi atti (che, come detto, ai fini della ricerca non è importante se siano storicamente avvenuti o no, o avvenuti esattamente come ci sono stati tramandati) e su come essi venivano “giustificati”, secondo topoi che si ripetono più o meno uguali in tutte le fonti. Si può sintetizzare il “giudizio” della società dell’epoca con una formula apparentemente contraddittoria: i furti di reliquie erano sì illegali, ma non per questo erano considerati immorali. Attraverso l’analisi dei testi, si ricavano le giustificazioni tipiche del gesto: la volontà di offrire una sistemazione più dignitosa e più illustre o più sicura per le spoglie di un santo, la necessità di protezione avvertita dalla comunità, ma non ultimo anche la “volontà” stessa del santo-reliquia. La reliquia, infatti, lungi dall’essere un po’ di polvere e di ossa, o all’opposto un simbolo astratto del santo, era il santo stesso, quasi fosse ancora vivo, presente, dotato di volontà propria: per giustificare i furti, o al contrario per spiegare i tentativi non andati a buon fine, non è infrequente che si ricorra all’intervento diretto del santo che domanda lui stesso, attraverso sogni e visioni, di essere trasferito, o che si lascia o non si lascia portare via dal luogo in cui si trova sepolto.

È un libro curioso e interessante, ma non semplice o per tutti, comunque: specialmente nelle parti in cui si addentra in datazioni incerte e tradizioni di manoscritti è, inevitabilmente, molto tecnico.

Patrick J. Geary, Furta sacra. La trafugazione delle reliquie nel Medioevo (secoli IX-XI) (trad. Eugenia Fera), voto = 3,5/5

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Qui non ci sono bambini

In occasione della Giornata della Memoria, ho letto questo volumetto che avevo acquistato ormai da un paio d’anni, e di cui appresi grazie a questo articolo sul Corriere della Sera (tra l’altro proprio in questi giorni, sempre per Einaudi, è uscita un’altra testimonianza di una bambina sopravvissuta ad Auschwitz, Il diario di Helga).

Per questo libro penso che parlino meglio di me la biografia del suo autore, e un link ai suoi disegni (vedi più avanti) su Google Images. Thomas Geve nacque nel 1929 a Stettino; nel 1935 si trasferì a Berlino con i genitori. Nel 1938 suo padre fu costretto a emigrare a Londra, da dove cercò, inutilmente, di farsi raggiungere anche da moglie e figlio. Ma le cose andarono diversamente. Nel 1943 Thomas e la madre vennero deportati ad Auschwitz; la madre non ne uscì viva. Thomas invece, che aveva solo 13 anni ma, per sua fortuna, ne dimostrava di più, scampò alla prima selezione (quella che destinava tutti i bambini e gli inabili al lavoro direttamente alle camere a gas) e resistette per due anni nel campo di concentramento. All’inizio del 1945, nel corso di una delle famigerate marce della morte, venne trasferito a Buchenwald con gli altri detenuti. Lì, l’11 aprile, arrivarono i soldati americani liberatori. Thomas aveva 15 anni, era uno dei più giovani sopravvissuti. In un centro di assistenza per bambini vittime della guerra in Svizzera, nell’attesa di raggiungere il padre in Inghilterra, per raccontargli la sua esperienza, non riuscì a usare le parole. Si servì dei disegni: usò il retro di tanti moduli della documentazione del campo lasciata indietro dalle SS e schizzò tante scenette, con uno stile infantile e, proprio per questo, potentemente espressivo: la sua vita, giorno per giorno, l’arrivo, la disinfestazione, gli appelli, le baracche, il lavoro, le punizioni, la fame, la marcia finale, la liberazione.

Non a caso Thomas, da adulto, diventerà un ingegnere: nei suoi disegni colpiscono l’attenzione per le costruzioni, la precisione nel delineare mappe, scale e distanze, oltre che la memoria spaziale del bambino, che disegnava a posteriori. Tutto questo sforzo “organizzativo” e regolatore mi è sembrato anche una prova della sua intelligenza e (anche se quasi mi vergogno, dall’alto non so di che, a pronunciare giudizi su un ragazzo che ha vissuto quell’inferno) della sua grande forza di volontà, del fatto che si sia mantenuto sveglio, vigile, attento, vivo.

A questo genere di libri si dà un “voto” che non può non tener conto più di tutto del valore di testimonianza, della sofferenza che c’è dietro. Ho però qualche perplessità sull’edizione italiana: a parte le didascalie esplicative che Geve ha aggiunto anni dopo, i disegni sono fitti di annotazioni: la gran parte di queste è stata tradotta, ma non tutte (ad es., qui, solo una parte di questo “alfabeto di Auschwitz”): io me la sono cavata abbastanza bene col poco tedesco che conosco, ma forse sarebbe stato meglio darne una traduzione integrale.

Thomas Geve, Qui non ci sono bambini. Un’infanzia ad Auschwitz (trad. Margherita Botto), voto = 4/5

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Image on the Edge

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Un veloce testo, corredato da molte bellissime e spassosissime immagini, sui marginalia, ovvero quelle bizzarre figurette, che si incontrano nei margini delle pagine dei codici medievali (ma l’autore le analizza anche in architettura), che sembrano uscite da un folle mondo a rovescio: scimmie che mostrano il sedere, animali che si mordono la coda, mostri semiumani, coppie che copulano, uomini che fanno la cacca o le boccacce, ecc.

Interessante e sorprendente, per chi è abituato a pensare alla società medievale come a qualcosa di immobile, rigidamente compartimentato, scoprire come invece confini (ad es. quello fra il sacro e il profano, talvolta l’osceno) che ormai, per la nostra mentalità, sono ritenuti invalicabili, o valicabili solo con grande scandalo, erano nel medioevo più indistinti, soggetti a scambi e contaminazioni.
E quindi, accantonate le spiegazioni che si tratti di divertissement senza senso o la proiezione dell’inconscio o del represso del monaco-miniatore, è molto interessante seguire il “dialogo” fra il testo scritto e i disegni nei margini, tutt’altro che casuali e insensate e tutt’altro che “ingenue” forme di una cultura “popolare” (giustamente l’autore rileva che questi codici non erano né prodotti in né destinati ad ambienti “popolari”), ma ben calcolate e coltissime: dal semplice botta e risposta fra scrittore e miniatore, dal disegno il cui soggetto si spiega come un gioco di parole o una storpiatura del testo soprastante, alla complessa combinazione di simboli che spiegano, rafforzano, illuminano per contrasto, o al contrario satireggiano il testo scritto.

Michael Camille, Image on the Edge, voto = 3/5

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The Language of Forms

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Ho visto questo libro al bookshop della Morgan Library di New York: manoscritti miniati, arte barbarica, 50% di sconto… insomma, subito comprato. Sono sei lezioni/conferenze tenute dallo storico dell’arte Meyer Schapiro, proprio alla Morgan Library negli anni Sessanta, sul tema dell’arte insulare, fiorita nelle isole britanniche e poi esportata anche nel continente europeo grazie ai tanti viaggi dei missionari e dei monaci irlandesi, fra il VI e il X secolo, le cui testimonianze più splendide sono i ricchi codici miniati, quali l’Evangeliario di Kells, l’Evangeliario di Durrow, l’Evangeliario di Lindisfarne (la stessa Morgan Library conserva molti titoli).

Quest’arte è stata a lungo bistrattata o comunque non compresa, soprattutto nel XIX secolo: poiché il suo carattere è del tutto anti-naturalistico e poiché, dal Rinascimento in avanti, il nostro canone estetico fa coincidere la bellezza con la vicinanza all’ideale della natura (solo con le avanguardie del Novecento si inizia a varcare questa frontiera: anzi, lo stesso Schapiro riconosce che forse la sensibilità di noi contemporanei è più adatta ad apprezzare l’arte altomedievale di quanto non fosse possibile in precedenza), queste miniature al massimo sono state lodate per la perizia tecnica dei loro esecutori e l’estrema complessità dei motivi decorativi, ma per il resto l’arte insulare è stata considerata primitiva e maldestra (basta guardare la resa delle figure umane o animali: piatte, senza alcuna idea di profondità, semplificate e rigide), caotica, una regressione rispetto alla misura e all’aderenza alla realtà dell’arte classica.

Meyer Schapiro si propone di ribaltare questi giudizi dispregiativi (ricordo che siamo negli anni Sessanta, quindi il suo lavoro si può dire forse pioneristico), e lo fa con grande passione. Si avvale di numerosi esempi che illustra con una meticolosità incredibile in ogni dettaglio, facendo cogliere particolari che, spesso, l’opulenza dei colori, la moltitudine e la complessità dei motivi, che si intersecano, si sovrappongono, si ripetono e si rovesciano, impedisce di vedere all’occhio distratto.

Dove tradizionalmente venivano visti disordine e casualità, Schapiro sottolinea invece l’estrema cura nella costruzione dell’insieme e i complessi rapporti che legano tutte le varie parti, dalla figura al testo, dalla decorazione alla cornice; dove veniva lodata l’abilità tecnica ma limitata alla monotona ripetizione di un elemento a puro scopo decorativo, rileva invece il gusto per l’irregolarità e l’inatteso all’interno di un insieme all’apparenza rigido e schematico, fa apprezzare l’originalità di un dettaglio inatteso, incongruo, quasi “capriccioso”, e in questo contrasto risiede la forza espressiva di quest’arte, che si affida poco alla natura e molto al simbolo.

Lo studioso trova inoltre insospettati precedenti e similitudini con esempi dell’arte classica, nonché consonanze con oggetti artistici di altra tecnica. Confesso però che leggere in lingua inglese un saggio estremamente tecnico come questo (anche se a mettermi in difficoltà sono stati più che altro i termini di uso specialistico, perché lo stile di Schapiro, forse anche per il carattere originario di lezioni orali dei testi, è semplice e chiaro) ogni tanto ha messo a dura prova le mie capacità di comprensione, e mi sono talvolta accontentata di seguire le analisi sulle singole opere, piuttosto che riuscire a comprendere il quadro generale dei rimandi e delle ipotesi.

Meyer Schapiro, The Language of Forms, voto = 3/5

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The Great Shakespeare Fraud

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Di questa vicenda, romanzesca ma assolutamente vera, sono venuta a conoscenza grazie a una serie di post nel pregevole blog “Senza Errori di Stumpa”: prima puntata, seconda puntata, terza puntata (tra parentesi, l’autrice del blog è molto più competente di me in materia di Shakespeare, epoca elisabettiana e letteratura inglese in generale, perciò, per avere informazioni anche più dettagliate di quanto scriverò qui di seguito, vi rimando ai suoi articoli, oppure trovate nel testo i link a Wikipedia).

È la storia di un ragazzo di circa diciott’anni, William-Henry Ireland, figlio illegittimo di Samuel Ireland: o almeno, così pare, perché nessuno si dette grande premura di chiarirgli le sue origini: è certo che quella che molto probabilmente era sua madre e Samuel Ireland convivevano da tempo, e agli occhi di tutti lui e le sue due sorelle erano figli di Samuel. Questa incertezza sicuramente influì sull’indole del giovane, timido, silenzioso e poco propenso allo studio, tanto che ben presto tutti, e in particolare il padre, si abituarono a considerarlo poco sveglio, anzi, decisamente scemo. Niente avrebbe reso William-Henry più felice del fatto di sentirsi amato e apprezzato dal padre, che invece, dalle pagine del saggio, non sembra fosse molto incline a considerare altri che se stesso. Samuel Ireland era un pittore e incisore, amava frequentare il bel mondo delle lettere e della piccola nobiltà, e soprattutto era un appassionato collezionista, ma con scarso senso critico: i suoi interessi andavano dall’opera d’arte di un certo gusto alla curiosità stravagante, all’oggetto divenuto “reliquia” perché appartenuto a questa o quella celebrità del passato. Fra i suoi numi, il primo posto spettava a William Shakespeare, che proprio in quella seconda metà del Settecento viveva un periodo di grande fortuna critica, e vedeva iniziare il suo “culto”. Se William-Henry non viveva che per ricevere un giorno un po’ d’amore da quel padre del tutto distante e indifferente, il sogno di Samuel era arrivare a possedere qualcosa scritta dalla mano del suo mito. Il giovane si convinse quindi che l’unico modo perché il padre lo notasse, per farlo felice, per rendersi meritevole ai suoi occhi, era esaudire questo suo desiderio. E si mise a produrre falsi autografi di Shakespeare.

Domanda: tutto qui il retroscena di questa maxitruffa passata alla Storia? Sì! Incredibile, no? Nel dicembre 1794 William-Henry salta fuori dicendo di aver trovato casualmente nella casa di un vecchio gentiluomo suo amico un autografo di Shakespeare, falsificato di sana pianta: un pezzo di carta antica, dell’inchiostro “invecchiato” con qualche trucco, una scrittura arzigogolata e quasi illeggibile e un inglese ridicolmente ed esageratamente antiquato, e l’avventura ha inizio. Samuel è pazzo di gioia, e William-Henry soddisfatto e compiaciuto: per la prima volta, ha fatto qualcosa di buono agli occhi del padre. Visto che è stato così facile, perché non continuare? Astutamente il giovane cominciò con documenti brevi, facili e poco impegnativi, come ricevute di pagamenti, contratti (lavorando in uno studio legale, il ragazzo poteva agevolmente prendere la carta da antichi documenti e copiare i formulari dell’epoca, e praticamente gli rimaneva solo da aggiungere il nome di Shakespeare; a giudicare dalla mole di falsi che produsse, inoltre, non doveva avere tanto lavoro da fare in ufficio!); poi, a causa delle continue pressioni del padre, freneticamente desideroso di avere la sua “dose” quasi quotidiana di nuovi cimeli, e che non fossero solo “aridi” documenti contabili, nonché della sua stessa crescente esaltazione nel vedere che nessuno scopriva l’inganno, in una spirale quasi autodistruttiva iniziò ad annunciare e produrre falsi sempre più elaborati: una lettera di Shakespeare alla moglie, il manoscritto di King Lear e, infine, addirittura una tragedia inedita, Vortigern, chiaramente scritta da lui dal primo all’ultimo verso.

La cosa stupefacente è che William-Henry, che certo non era un esperto del Bardo, nel fabbricare i suoi falsi incorse in una serie di madornali sviste, errori di cronologia, incongruenze, anacronismi, eppure nessuno sollevò alcuna obiezione: giocò forse a favore del ragazzo la paura di mettersi contro la corrente (“se tanti hanno già dichiarato che i documenti sono autentici, che figura ci faccio a dire il contrario?”), oppure non si fece caso agli errori perché il “suo” Shakespeare era più congeniale al gusto del Settecento (Ireland, ad esempio, nel presunto manoscritto di King Lear, “ripulì” il testo dalle espressioni volgari, nei documenti presentò il poeta come un uomo eccezionale sotto tutti i punti di vista, insomma fabbricò una versione “migliore” in cui tutti desideravano credere), o persino, paradossalmente, gli stessi errori furono portati a difesa dell’autenticità delle carte: in fin dei conti, un falsario si sarebbe documentato a fondo e non avrebbe mai commesso sviste così clamorose! La truffa andò avanti dunque per mesi, uscì dal ristretto circolo familiare e attirò a casa Ireland sempre più numerosi cultori del poeta, letterati e personaggi in vista: durò tanto a lungo, forse, proprio perché era troppo incredibile per essere anche solo concepita. Innanzi tutto, sebbene non mancassero esempi, anche recenti, di falsari (il celebre James Macpherson, ma l’autrice ricorda anche il meno conosciuto Thomas Chatterton, che fra l’altro aveva in comune con Ireland la giovanissima età), una cosa era inventarsi oscuri poeti gaelici o medievali e fabbricarne di sana pianta le opere (come appunto avevano fatto i due sopra citati), non sarebbe stato poi impossibile farla franca, un’altra osare lo stesso con un grande della letteratura, il più grande anzi, conosciutissimo e ammiratissimo. Assurdo pensare che vi fosse qualcuno capace di rischiare tanto! E poi, povero William-Henry, l’altro motivo per cui fino all’ultimo nessuno sospettò del ragazzo che continuava a fare una scoperta eccezionale dopo l’altra era che lo consideravano tutti talmente scemo che mai l’avrebbero ritenuto in grado di architettare un imbroglio di così vasta scala!

Incredibile, bizzarra, romanzesca e a tratti comica quanto si vuole, la storia di William-Henry Ireland è in realtà anche piuttosto triste: si pensi alla fitta corrispondenza tra il padre Samuel e il fantomatico “Mr H.”, il vecchio gentiluomo di cui il ragazzo diceva di essere diventato amico e nella cui casa erano avvenuti tutti i miracolosi ritrovamenti. Le lettere di Mr. H, ovviamente false, erano l’unico, disperato modo in cui William-Henry osava comunicare, persino qua e là accennando velatamente alla verità, col genitore: tramite questo “amico immaginario”, tanto prodigo di lodi per il suo talento, tentava di suscitare un po’ di affetto e apprezzamento nel padre Samuel, che rimase, ahimè, cieco e sordo di fronte a queste patetiche “richieste di aiuto”, fissato piuttosto sul proposito di arricchire la sua collezione o di lanciare il business che stava mettendo su attorno ai documenti “scoperti” dal figlio.

Non si può dire che Ireland sr si sottraesse alle verifiche: i documenti erano esposti nella sua abitazione e chiunque poteva vederli (anzi, grazie al pagamento di un biglietto Samuel ci guadagnava anche qualcosa). Beh, non proprio chiunque, in effetti: al maggior studioso di Shakespeare dell’epoca, Edmond Malone, non fu mai permesso di esaminare la collezione, chissà perché (forse Samuel non era poi così sprovveduto come potrebbe sembrare). Già in partenza scettico, e ora anche piuttosto offeso, Malone dovette aspettare fino alla fine del 1795, quando i manoscritti vennero trionfalmente pubblicati: acquistato il volume, si mise ad esaminarlo per trarne le sue conclusioni sull’autenticità o meno dei manoscritti. Si aspettava di dover fare un esame difficoltoso e lungo, si rese invece conto che il suo lavoro era… fin troppo facile per la quantità spropositata di incredibili errori e assurdità che balzarono immediatamente agli occhi del critico: Malone pensava di scrivere un rapido opuscolo, ma talmente tante erano le obiezioni che si potevano sollevare che pubblicò invece un volume di circa 400 pagine in cui faceva a pezzi impietosamente ogni pretesa di autenticità della collezione di Ireland.
Già da prima che Malone mettesse la definitiva pietra tombale sulle speranze di Samuel, comunque, dopo il primo periodo in cui, se mai qualcuno era rimasto non del tutto convinto, si era però guardato bene dal parlare, il dubbio aveva cominciato a farsi strada e, all’inizio del 1796, era esploso: la stampa andò a nozze con questa stuzzicante controversia, con una serie di attacchi degli scettici, contrattacchi dei credenti, parodie, canzonature, vignette, caricature, che culminarono nella “memorabile” (e unica) messa in scena di Vortigern il 2 aprile 1796. La credibilità dei manoscritti era ormai precipitata: William Henry, per non mettere in difficoltà il padre, che da tutti venne additato come il vero responsabile della truffa, confessò tutto scagionandolo… Non gli credettero, e soprattutto non gli credette il padre, che continuò disperatamente, irragionevolmente, incredibilmente a considerare autentici i documenti e a insistere col figlio perché questo misterioso “Mr H.” si facesse avanti e uscisse dall’anonimato, confermando la sua versione. La famiglia Ireland uscì a pezzi da questo disastro: padre e figlio ruppero tutti i rapporti, e per lo stress Samuel morì di lì a poco, nel 1800. Insomma, l’unico scopo che William Henry si era prefisso quando aveva iniziato a produrre falsi, e cioè farsi amare dal genitore, non fu mai raggiunto. Consola un po’, comunque, venire a sapere della sorte successiva di William Henry: il ragazzo venne fuori meglio dallo scandalo e, spiace dirlo ma sembra questo il caso, la morte del padre forse lo “liberò” da questa presenza tanto opprimente; lasciò Londra e visse a lungo in Francia, si sposò due volte e soprattutto proseguì la carriera di “scribacchino” con una produzione letteraria alquanto torrenziale, che spaziava dal romanzo alla poesia, dalla biografia agli scritti di argomento politico. Morì nel 1835.

Con un argomento così, sfido chiunque a scrivere un brutto libro: infatti, il saggio della Pierce, se anche forse non dirà nulla di nuovo all’esperto, è accessibile e godibilissimo, soprattutto per chi, come me, non sa granché della biografia di Shakespeare (anzi, sembra essere stato pensato proprio per un pubblico non esperto, vedi anche i riquadri di approfondimento stile libro scolastico).

Patricia Pierce, The Great Shakespeare Fraud, voto = 4/5

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Stecchiti

Dico la verità, mi aspettavo qualcosa di diverso. Per quanto riguarda l’oggetto della ricerca, innanzi tutto: pensavo riguardasse le diverse modalità con cui le società umane hanno guardato all’oggetto “cadavere”, come l’hanno trattato, similmente al saggio, già letto in precedenza, Resti di umanità, di Adriano Favole. Invece, qui lo scopo è più ristretto, e cioè gli usi che la scienza può trovare per i cadaveri umani, come questi possono essere impiegati nella ricerca, non solo medica (vedi più avanti). Oltre al presente, in cui ovviamente l’uso è regolato e chiaramente limitato ai cadaveri espressamente donati alla scienza secondo la volontà del defunto, non manca uno sguardo anche al passato e ai sistemi molto più “liberi”, per i nostri standard, degli scienziati di una volta.

Niente di male, comunque: il problema non è stato certo questo, perché l’argomento si è rivelato assai interessante. Il problema è che mi aspettavo anche qualcosa di più serio. Divulgativo, certo, ma serio. Invece qui l’autrice, la giornalista Mary Roach, nel raccontare le varie tappe della sua inchiesta, usa un tono esageratamente umoristico, vuol farci sbellicare dalle risate… Certo, mi si dirà che tutto ciò è assolutamente calcolato, serve a esorcizzare un tema che per tanti è repellente, disgustoso, terrificante, tabù. Che il saggio è destinato al grande pubblico, e un’esposizione fredda e seriosa avrebbe respinto i lettori; è chiaro che le risate e le battute sono un “vaccino” di fronte alla crudezza e alla violenza di certi temi o immagini: chi avrebbe mai desiderato di leggere un libro sugli squartamenti di cadaveri scritto in modo tetro e impersonale? Ma io resto poco convinta. Anche Sacks, in Hallucinations, faceva divulgazione, e anche lui su un argomento potenzialmente inquietante e spaventoso per il lettore “medio”, ma non sentiva il bisogno di “alleggerire” di continuo il discorso con le battutine. Se c’è una cosa che non mi fa ridere, è un libro che a ogni piè sospinto mi dia di gomito e mi strizzi l’occhio con l’aria di dire “ah ah, hai visto quanto sono divertente?”. Senza contare che Stecchiti rischia di trasformarsi da “libro che parla di cadaveri” in “libro che parla di Mary Roach che indaga sui cadaveri“. La figura dell’autrice, lungi dallo scomparire in modo neutro dietro l’oggetto della sua ricerca, domina incontrastata le pagine, probabilmente sempre nell’intento di “umanizzare” la materia, di presentare le sue reazioni come quelle che tanti suoi lettori, tu e io, le persone “normali”, avrebbero di fronte a certi spettacoli. Ma, quando è troppo, è troppo: Mary Roach, scansati un attimo dal centro dell’inquadratura, starei cercando anche di imparare qualcosa, non solo di leggere di te e delle tue avventure in giro per l’America e il mondo per scrivere questo saggio.

Spiegati i motivi per cui non mi sono innamorata follemente di questo libro come la maggior parte dei suoi lettori, ciò non toglie comunque che l’argomento sia interessante e affrontato da molteplici punti di vista. Infatti in genere per superare il fastidio leggevo rapidamente i passi in cui l’autrice fa la simpatica e cercavo di concentrarmi su quelli più informativi. Tutti sappiamo dell’importanza della donazione degli organi. Un altro uso di un cadavere donato alla scienza che il profano non fatica a immaginare è per gli studi di anatomia: dissezioni di cadaveri e “teatri anatomici” sono argomenti consueti della storia della medicina (erano al centro anche del bel saggio The Italian Boy, di Sarah Wise). Ma forse i più non immaginano che i chirurghi plastici si impratichiscono, per gli interventi di ricostruzione facciale, su teste decapitate; che per la medicina legale sono molto importanti le ricerche che studiano le varie fasi di decomposizione (saperle identificare aiuta a stabilire il momento della morte); che nella costruzione di automobili ci si basa anche su crash test effettuati non con i classici manichini, ma con cadaveri; che, sembrerà paradossale, gli stessi fabbricanti di armi e l’esercito ne hanno bisogno (allo scopo di creare proiettili che raggiungano l’obiettivo di arrestare un nemico che costituisce una minaccia, ma possibilmente senza ucciderlo); che “ingredienti” provenienti dai cadaveri sono stati alla base di tanti preparati medici del passato. E, nonostante si senta “in obbligo” di bombardarci di battute che, con me, hanno avuto l’effetto di appesantire il testo, più che alleggerirlo, nonostante la profonda antipatia che mi hanno suscitato lei e la sua chiacchiera e la sua mania di protagonismo, e il desiderio di non prendere più, per un bel pezzo almeno, un suo libro in mano, l’autrice riesce, alla fin fine, a trasmettere la passione dei tanti scienziati “mattacchioni”, il fascino della ricerca scientifica, che non si stanca mai di cercare soluzioni nuove, che vede opportunità di scoperta e di conoscenza dove i più vedono un punto senza ritorno, e uno strano debito di “riconoscenza” verso… i cadaveri dei tanti anonimi donatori.

Infatti, se si è in grado di sorvolare sull’aneddotica, sulle battute a mitraglietta e sulle digressioni che non c’entrano nulla, le parti del libro che “funzionano” di più sono sicuramente quelle in cui l’autrice riferisce di esperimenti visti in prima persona. Gli excursus storici sono abbastanza dilettanteschi, ma c’è una bibliografia per chi volesse approfondire.
C’è un erroraccio nella traduzione: a p. 30, si parla dell’impiccagione del noto assassino e ladro di cadaveri Burke, la cui salma, si legge, “in un delizioso episodio di poesia giuridica … fu, secondo quanto previsto dalla legge, sezionata”. “Poesia giuridica” è un’espressione del tutto priva di senso in italiano, che ho immediatamente individuato come una traduzione errata dell’originale poetic justice, e cioè giustizia poetica (ne ho avuto conferma da una persona che possiede il libro in inglese)! A p. 47 abbiamo “Ron a cominciato a non vedere l’ora che me ne andassi”, col verbo “avere” senza la h. A p. 76 “io un’occhiata”, ma l’accento non ci vuole. A p. 88 “Un altro modo in cui i cadaveri posso essere d’aiuto”. Da p. 175 si comincia a citare un’opera di medicina tradizionale cinese col titolo Chinese Materia Medica, con uno strano miscuglio di inglese e latino (si tratta di questo compendio del XVI secolo): in italiano forse sarebbe stato meglio scrivere “Compendio di Materia medica”? Su questo non sono sicura, ma certo Chinese Materia Medica suona quanto meno strano. Insomma, edizione italiana che sembra poco curata.

Mary Roach, Stecchiti. Le vite curiose dei cadaveri (trad. Michela Volante), voto = 3/5

P.S. I passi più stomachevoli e dolorosi, comunque, non sono certo le descrizioni dei test sui cadaveri, bensì quelle degli esperimenti condotti su animali vivi (quando l’uso dei cadaveri è o era vietato, o non sarebbe stato utile per lo scopo dell’esperimento; preciso inoltre che spesso si parla di esperimenti condotti in epoche in cui ancora ben poco ci si preoccupava di limitare la sofferenza dell’animale): se siete sensibili a questi argomenti, sconsiglio di leggere questo libro.

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The Horror! The Horror!

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Il primo libro del 2014 era sulle allucinazioni; questo è sui fumetti dell’orrore americani dei primi anni Cinquanta, ed è ricchissimo di illustrazioni pop-splatter-trash. Se consideriamo che come prossimo libro, ora, sono tentata di iniziare Stecchiti. Le vite curiose dei cadaveri, di Mary Roach, ce n’è abbastanza per farmi venire gli incubi!

Scherzi a parte, questo The Horror! The Horror! (sottotitolo: Comic Books the Government Didn’t Want You to Read!), di Jim Trombetta, visto nella libreria di una “vicina” di Goodreads, è in realtà un saggio molto serio che analizza un genere popolarissimo, i suoi temi predominanti e la sua arte, e soprattutto i motivi per cui a un certo punto venne energicamente combattutto dal governo americano fino all’imposizione di una rigidissima censura, il “Comics Code”, datato 1954. L’autore ha inoltre pescato dalla sua collezione e riprodotto nel volume tantissime copertine di giornaletti oggi rarissimi, di cui potete immaginare il kitsch assolutamente irresistibile (alcuni esempi si possono vedere in questa recensione di un utente di Goodreads, anche se è possibile che il link sia accessibile solo a chi è iscritto al social network: un’alternativa qui), nonché alcune storie nella loro interezza.

Fumetti e riviste quali Weird Tales of TerrorHorrific, Uncanny Tales, Haunted Thrills e via dicendo erano fra gli svaghi più popolari e diffusi tra i ragazzini americani dell’immediato dopoguerra: ben presto però risvegliarono l’attenzione preoccupata di psicologi e politici, finché, appunto, non si decise di regolamentare il settore. Tra le prescrizioni, che a noi ora suonano quasi ridicole ma che piombarono tra capo e collo su tutta una schiera di operatori del settore, che oltre tutto si ritrovarono anche a essere additati e accusati dalla Commissione governativa apposita quali “corruttori della gioventù”, il divieto di usare le parole Horror e Terror nei titoli, il divieto di rendere in modo minimamente attraente o simpatico i cattivi o di presentare situazioni che potessero suscitare “sfiducia” nella legge o nelle forze dell’ordine, l’obbligo del lieto fine nelle storie (!). In teoria, i dettami del Comics Code non erano tassativamente vincolanti, ma gli edicolanti e i rivenditori si rifiutavano di esporre i giornaletti che non vi si attenevano, per cui, di fatto, per delle pubblicazioni che, non dimentichiamolo, erano sì forme d’arte ma anche, anzi soprattutto, operazioni commerciali (lo scopo era vendere!), vi era ben poca scelta.

Come in tutti i casi di censura, emerge “in negativo” che le copertine, le illustrazioni, le storie di queste pubblicazioni andavano a toccare, in modo consapevole o meno (forse uno degli aspetti che mi ha meno convinta del saggio è stato caricare fin troppo e in modo generalizzato di intenzionalità i messaggi reputati “pericolosi” trasmessi da queste riviste), nervi scoperti della società del tempo, come naturalmente la paura dell’olocausto nucleare, la divisione in blocchi e la paranoia anticomunista (“Dungeon of Doom”, pp. 37-41), traumi non ancora elaborati, come gli orrori, da poco emersi, della Shoah, ma anche altri tragicamente attuali, come la guerra di Corea, in cui forse per la prima volta vennero impiegati (o si iniziarono a conoscere) tattiche e armi da “film dell’orrore” (come l’uso del napalm, o le torture fisiche e psicologiche sui prigionieri), e così pure incubi più quotidiani e casalinghi come la realtà delle discriminazioni razziali (emblematico l’esempio citato alle pp. 273-274; inoltre, alle pp. 266-271, una rarità: una storia, riprodotta integralmente, di uno dei pochi artisti afroamericani dell’epoca, “Some Die Twice” di A.C. Hollingsworth, che si svolge su una nave negriera), la violenza domestica (specie sui bambini), fame e povertà (che stridevano troppo con l’immagine esaltante e vittoriosa della nazione più potente del mondo). Questo non vuol dire che tutti i fumetti contenessero messaggi progressisti troppo scomodi per l’autorità, anzi: alcuni erano sicuramente capolavori di satira (la società degli zombie della storia “Corpses … Coast to Coast!”, alle pp. 193-198!), ma più spesso i racconti solleticavano infantilmente gli istinti e i pregiudizi più beceri. Il problema era, però, che osavano trattare, scopertamente o dietro la metafora del fantastico o l’immagine del vampiro e del lupo mannaro, con una violenza inedita, e a un pubblico considerato “innocente”, argomenti che si preferiva piuttosto sottacere che affrontare.

Vero è che, forse, l’egemonia dei fumetti, e dei fumetti del terrore in particolare, avrebbe comunque dovuto cedere, prima o poi, di fronte all’avanzata di nuovi media, come la televisione, ma sicuramente il Codice ne accelerò la fine. D’altra parte, quella dei censori fu una vittoria molto effimera, proprio perché gli stessi temi, la stessa “sfacciataggine” nella raffigurazione della violenza e nel trattamento di temi politicamente scorretti sarebbero riemersi, di lì a poco, proprio in cinema e televisione.

Interessante il parallelo dell’autore fra l’atteggiamento del governo USA negli anni Cinquanta e quello post 11 settembre 2001, caratterizzato, mutatis mutandis, da una svolta a 180°: allora, si scelse di pacificare l’opinione pubblica tentando di eliminare, anestetizzare, infiocchettare qualsiasi riferimento o accenno alle paure più comuni dei cittadini, alle emergenze sociali. In anni più recenti, invece, l’orientamento è stato quello di tenere costantemente alto il livello di allarme nella “guerra al terrore”, di attizzare, più che smorzare, la paura.

Al saggio in sé va un voto di 3,5: ma nel giudicare questo libro grande peso devono avere, ovviamente, la parte grafica, la confezione, l’apparato iconografico, che ne fanno un oggetto prezioso e bellissimo. E poi, le storie che sono riprodotte nella loro interezza! Alcune davvero inquietanti e spaventose e geniali e consapevolmente provocatorie, altre godibili proprio perché ridicolmente, sfacciatamente trash. E in più, in allegato c’è anche un DVD con un documentario televisivo andato in onda il 9 ottobre 1955 (una puntata del programma Confidential Files, condotto da Paul Coates) che mette in guardia contro l’influenza perniciosa dei fumetti sui ragazzini (paradossalmente sembra di guardare una delle esilaranti parodie del genere che si vedono negli episodi dei Simpson… ma questo è vero, oltre che più spaventoso dei fumetti stessi. Tra l’altro, come nota l’autore, è anche fuori tempo massimo perché i fumetti dell’orrore sono già stati banditi l’anno prima)! Solo un appunto: ma è obbligatorio che la “firma prestigiosa” di turno scriva i propri pensierini nell’introduzione? L’editore è così convinto che questo renda ancora più appetibile il suo libro? Qui si tratta di R.L. Stine, famosissimo anche in Italia per la serie dei Piccoli brividi: è un nome che sicuramente ha attinenza col tema trattato, ma nella paginetta di introduzione si limita a dire, in tono spiritoso, che da ragazzino a lui e ai suoi amici piacevano molto questi fumetti, e che a un certo punto scomparvero dalle edicole, ma che nessuno di loro ha mai risentito della loro presunta “nefasta” influenza nella vita adulta. E quindi? Magari se avesse approfondito un po’ sul modo in cui queste precoci letture hanno influenzato la sua opera di scrittore sarebbe stato più interessante.

Jim Trombetta, The Horror! The Horror!, voto = 4/5

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Hallucinations

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Cercherò di fare del mio meglio nel commentare questo saggio del celebre neurologo Oliver Sacks, sperando di non scrivere palesi sciocchezze. D’altra parte, credo che il pubblico che l’autore aveva in mente sia proprio quello di profani, non esperti della materia, da cui il linguaggio pienamente accessibile (suppongo che, quando scrive per una rivista scientifica, Sacks lo faccia in modo ben più tecnico).
Così come per il precedente L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, le mie motivazioni nell’affrontare la lettura si distribuiscono equamente fra il desiderio di imparare qualcosa e il gusto per il racconto bizzarro, “strano”, “fantastico”. Ma qui non si tratta di invenzioni.

Sacks si preoccupa subito di sgombrare il campo da un diffuso convincimento: le allucinazioni non sono riservate solo ai “matti”, anzi, sono eventi più frequenti di quanto non si creda. Confessare di esserne soggetti è però tabù per molti, proprio perché nell’opinione comune sono associate alla follia. L’autore passa dunque ad elencare alcune cause, di natura neurologica e non psichiatrica, di questo fenomeno. Coloro che hanno perso del tutto o parzialmente l’uso di uno dei cinque sensi, in modo particolare la vista, ricevono “in cambio” dal cervello quella che può essere considerata una vista “compensativa” (sindrome di Charles Bonnet); traumi che lasciano danneggiate alcune parti del cervello, emicranie, uso di droghe e allucinogeni, effetti indesiderati di farmaci assunti per altre patologie, febbri che causano delirio o epilessia sono altre possibili spiegazioni. Frequentissimo anche il caso di pazienti amputati che continuano a “sentire” l’arto asportato. Le allucinazioni possono essere visive, uditive, olfattive, tattili, semplici oppure complesse, con vere e proprie scene e personaggi che sfilano davanti ai nostri occhi, o agli occhi della nostra mente.
Sembrano poi essere particolarmente comuni, o comunque non così rare, le allucinazioni ipnagogiche, che si verificano qualche istante prima di addormentarsi: possono consistere in semplici forme geometriche e linee che si materializzano nel nostro campo visivo, ma talvolta anche in voci e scene complesse.

Inutile dire che per tutti questi casi Sacks propone un vasto campionario di esempi, ripreso dalla sua esperienza di medico ma anche dalla letteratura, dai primi passi della scienza in questo campo (Charles Bonnet, che citavo prima, è uno studioso del XVIII secolo che analizzò questa disposizione alle allucinazioni a seguito della perdita della vista in suo nonno) ai tempi più recenti, nonché dalla sua stessa biografia: e qui il lettore sensibile al gusto del racconto di cui sopra può abbandonarsi al piacere di queste storie, vere e stranissime, che talvolta possono apparire anche spaventoso, anche se colpisce sempre il modo in cui, in generale, i soggetti che ne sono protagonisti tendono a venire a patti con le loro allucinazioni, le accettano, qualche volta persino le gradiscono (ad es. i tanti non vedenti che finiscono per affezionarsi a quel variegato “teatro” che il loro cervello allestisce, o penso alla signora che da anni sente continuamente la stessa musica, eppure questo non l’ha fatta impazzire e non le impedisce di avere una vita normale).

Molto spesso, dunque, le allucinazioni sono bizzarre, divertenti e favolose; certo, possono essere anche, al contrario, spaventose, ma in generale non sembrano avere un “significato”, non sono legate al nostro passato o ai nostri desideri e paure e, a differenza dei sogni, ne siamo solo spettatori, non vi partecipiamo attivamente, non c’è alcun coinvolgimento emotivo. Diverso, purtroppo, il caso delle allucinazioni in soggetti vittime di PTSD (post traumatic stress disorder), come veterani di guerra o persone che hanno subito violenza sessuale: lì l’opera del neurologo deve unirsi a quella dello psicologo per venire a capo del trauma che continua a infestare la mente.

Tralasciando questi tristi casi, mi ha colpito, parlando delle possibili spiegazioni del fenomeno, una frase (riferita a dire il vero alle sole allucinazioni ipnagogiche, ma che mi piace mettere come “a sigillo” di questo affascinante argomento):

Perhaps one may also venture the term “play” and think of the visual cortex playing with every permutation, playing with no goal, no focus, no meanings—a random activity or perhaps an activity with so many microdeterminants that no pattern is ever repeated. Few phenomena give such a sense of the brain’s creativity and computational power as the almost infinitely varied, ever-changing torrent of patterns and forms which may be seen in hypnagogic states.

L’ipotesi di una mente che si lascia andare al “gioco” senza uno “scopo” mi sembra, non so bene perché, emozionante e quasi commovente.

Oliver Sacks, Hallucinations, voto = 3,5/5

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Gli Oscar del 2013 – Premiazioni

Avevo già questa impressione, e ora la matematica la conferma: il 2013 non è stato un anno di letture eccezionali. La media voto è 2,95 (su 5), cioè sotto la sufficienza, sia pure di pochissimo. Di libri bruttissimi ce ne è stato solo uno (e mezzo), ma è stato soprattutto il consistente numero di libri “così così” o deludenti o “senza infamia e senza lode” a causare questo risultato negativo. D’altra parte, non ho neanche dato a nessuno il massimo dei voti (però 3 libri ci sono andati vicino, con 4,5/5)

Prima di iniziare coi “premi”, una nota a margine: mi fa piacere aver finalmente terminato, nell’anno del bicentenario della nascita del compositore, la lettura “pluriennale” dei quattro volumi di The Life of Richard Wagner di E. Newman (non conteggiati a fini statistici). Era uno dei “buoni propositi” di inizio 2013, rispettato.

– Libro migliore del 2013

I “primi della classe”, come dicevo sopra, quest’anno sono stati tre: Maurice, di E.M. Forster, Quel che resta del giorno, di Kazuo Ishiguro, e Brokeback Mountain, di Annie Proulx, quest’ultimo proprio fresco fresco, letto il 31 dicembre. In teoria ora dovrei essere in difficoltà nell’assegnare il premio, invece non ho dubbi: bellissimi tutti, ma come mi ha tenuto inchiodata alle pagine (pur parlando apparentemente di cose noiosissime come il modo migliore di lucidare l’argenteria!) e mi ha fatto versare calde lacrime come Quel che resta del giorno, non c’è riuscito nessun altro.

Certo, non è che sia una terna molto “allegra”! Almeno uno dei tre però non finisce malissimo, dai. Cito altri bei titoli (li ritroveremo anche in altre categorie): The Complete Brandstetter, più come “esperienza” che come qualità dei singoli romanzi in sé, The Italian Boy, Pyongyang, North and South, I cani di via Lincoln.

– La gradita sorpresa del 2013

Qui facciamo una piccola precisazione: la “sorpresa” non è semplicemente un autore mai letto prima. Prima di quest’anno non avevo mai letto né Borges né de Amicis, ma entrambi non sono per nulla perfetti sconosciuti. Tanti degli autori di quest’anno erano nomi nuovi per me, ma questa categoria va interpretata nel senso che non devono solo rivelarsi sconosciute “meteore”, ma anche lasciare il segno, invogliarmi a riprendere in mano qualcosa scritto da loro in futuro. E allora, vista così, sono più numerosi quelli che ho voluto “sperimentare” e che mi hanno deluso, purtroppo (alcuni esempi: forse per la Allen di The Only Gold non si può proprio parlare di fallimento, ma mi aspettavo meglio, Zeise con L’Armada, Harwood con The Seance, Tenino con Too Stupid to Live, Holeman con The Linnet Bird, Esquivel con La voce dell’acqua, Baker con L’Ambasciatore di Marte alla corte della regina Vittoria…). Venendo invece ai pochi ma buoni, sono stata un po’ indecisa se premiare Pyongyang di Guy Delisle che, suggerito dai consigli automatici di Goodreads, mi ha “folgorata” dopo aver sfogliato poche pagine in libreria, o Miami Blues di Willeford, primo di una serie che proseguirò, però… però devo essere onesta: come opere sono di qualità migliore, ma non mi hanno piacevolmente “stupito” quanto… un romanzetto rosa, letto in due mezze giornate sotto l’ombrellone: Pricks and Pragmatism, di J.L. Merrow. È stata, dunque, una sorpresa, perché di fronte a questo tipo di romanzi, dall’anno scorso, non faccio più la snob, qualcheduno mi stuzzica, lo leggo e lo gradisco, ma non mi illudo mai di trovarci il “capolavoro”: e invece questo qui, nel suo piccolo (vale anche per le dimensioni, in realtà è più un lungo racconto che un romanzo), è un gioiellino, che riesce a evitare gran parte delle solite formule del genere e si fa apprezzare per l’originalità, la leggerezza, con cui però tocca temi anche seri, e la “positività”.

Curiosità: una delle scoperte dell’anno scorso, Georgette Heyer, nel 2013 non si è confermata ma ha anzi piuttosto deluso (The Grand Sophy), ma forse per lei non è detta l’ultima parola.

– Miglior opera di narrativa italiana contemporanea

Gli autori italiani non sono andati male, tutto sommato: certo, niente per cui gridare al miracolo, ma è questa d’altra parte la tendenza generale del 2013, come detto. Carini I funeracconti e Amore e ginnastica, niente male La chimera, La puttana del tedesco, Principessa e La setta degli angeli, un gradino più su Mabel dice sì e Tentativi di botanica degli affetti, mentre purtroppo mi ha un po’ deluso Le api randage (colpa di un confronto impossibile con un’altra opera dello stesso autore), ma il vincitore è una lettura recente, I cani di via Lincoln di Antonio Pagliaro: sono particolarmente contenta perché mi ha dato la possibilità di “rivalutare” un autore che rischiavo di accantonare a causa di una sua precedente prova infelice (sempre e solo secondo il mio personale giudizio, ovviamente).

– Miglior opera di narrativa straniera contemporanea

In realtà il risultato qui sarebbe scontato, visto che l’ho già premiato come Libro dell’Anno: Quel che resta del giorno di Kazuo Ishiguro. Se però vogliamo escludere quest’ultimo, in teoria dovrei premiare i due che più gli si sono avvicinati, Maurice o Brokeback Mountain… Però, che ci posso fare, c’entrerà anche la soddisfazione di essersi accaparrata un libro “raro”, quella specie di “affetto” che si instaura fra lettore e personaggio quando questo è ben costruito e lo si accompagna per tanti romanzi e tante storie, ma a me va di premiare “in blocco” tutta la serie di Brandstetter di Joseph Hansen. E così Dave si aggiudica anche questo dopo il premio “Miglior sorpresa 2012”! Nel 2014 dovrò sforzarmi di pensare a qualcos’altro.

– Miglior opera di saggistica

Facile, The Italian Boy, di Sarah Wise: scorrevolissimo e appassionante come un romanzo, con quel gusto anche del “macabro” e dell’indagine, spaziando però attraverso tanti temi e spunti.

Scelta facile, dico, perché gli altri saggi al massimo non sono andati oltre un onesto 3/5: un po’ meglio solo Mrs Robinson’s Disgrace e Psicopatologia della vita quodidiana. Quest’anno il mio interesse per alcune settimane si è catalizzato su la spedizione di Cortés e la fine dell’impero azteco: purtroppo però nessuna delle opere che ho letto “merita” il premio di miglior saggio: per un motivo o per un altro mi sono tutte sembrate più o meno carenti: spero nei prossimi libri che leggerò in futuro sull’argomento.

– Miglior classico

Più o meno significa “romanzo ‘famoso’ di qualche secolo o decennio fa”, anche se il limite cronologico non mi è molto chiaro (ci metto Borges e non La notte e la città, che pure sono più o meno coevi, per dire). Devo avere inconsciamente qualcosa contro Forster, perché neanche qui Maurice riesce a spuntarla: forse, più seriamente, sconta il fatto di essere una lettura di qualche mese fa, e quindi meno fresca nella memoria di North and South di Elizabeth Gaskell, che si è rivelato insospettabilmente “moderno” e che ha soddisfatto, senza annegarlo nella melassa, anche il mio lato più romantico, che ultimamente tende a venir fuori sempre più spesso.

Fra gli altri, godibilissimo e giustamente famoso Treasure Island, probabilmente non compreso e trattato in modo un po’ troppo severo L’Aleph; invece, niente di che, secondo me, un classico popolarissimo ai suoi tempi e anche oggi, The Woman in White.

– Il peggio…

Ah ah, non ci devo pensare neppure un secondo: Gli Schwartz, di Matthew Sharpe, che libro orribile! Una pena andare avanti anche solo di poche righe. In confronto a quello, persino un libro brutto come Dove nessuno ti troverà sembra decente.

Molto staccati, perché non raggiungono certo i livelli di questi due “campioni”, ma comunque insufficienti La voce dell’acqua, The Grand Sophy (che delusione dopo la scoperta Cotillion del 2012!), L’Ambasciatore di Marte alla corte della regina Vittoria, Miss Lonelyhearts (che tanti giudicano un capolavoro: mah!). Certo, almeno loro erano leggibili, però, a differenza del nostro “vincitore”.

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