Mi spiacerà morire per non vederti più

Il tema del mese (trovata del 2012 che però abbandonerò presto perché troppo complicata e limitante) doveva essere “sbirri”, sbirri buoni, sbirri cattivi, perciò, dopo ACAB, in attesa di mettere le mani su altri due libri in arrivo, avevo iniziato L.A. Confidential di Ellroy, ma, dirò la verità, dopo 16 pagine l’ho accantonato perché mi aveva già stancato, e ho iniziato qualcosa di completamente diverso: Mi spiacerà morire per non vederti più, di Roberto Pazzi. E tanti saluti al “tema”, perché qui poliziotti, morti e indagini non c’entrano nulla.

Di questo autore avevo letto, finora, solo Conclave (2001), romanzo bizzarro e particolare ambientato appunto nel chiuso dei palazzi vaticani durante l’elezione del nuovo papa, soffuso di strani ma delicati e rispettosi elementi di magia e mistero, che mi aveva favorevolmente colpita. Evidentemente il papato e la figura del pontefice sono temi che affascinano l’autore, visto che anche qui c’entrano, in questo caso uno dei protagonisti di Mi spiacerà morire per non vederti più è addirittura Gregorio Magno (590-604). Leggendone sul Corriere della Sera qualche tempo fa, mi aveva incuriosito, e l’ho acquistato a dicembre dal sito Libraccio (continuo il mio tentativo di “aggirare” le restrizioni della legge Levi rivolgendomi esclusivamente al mercato dell’usato: comporta però qualche difficoltà con le ultimissime uscite).

Bisogna ammettere che l’ambientazione nella Roma del VI secolo d.C. e Gregorio Magno come protagonista sono scelte poco convenzionali: e in effetti non mi vengono proprio in mente opere di narrativa ambientate in questi primi secoli dell’alto medioevo. In realtà, la vicenda medievale è un “romanzo nel romanzo”: l’io narrante, Gregorio Eusebi, è un uomo dei nostri giorni in vacanza con la moglie in montagna, dove fa amicizia con un uomo affascinante, Carlo. Voglioso di evadere dalla sua grigia quotidianità, si inventa di essere uno scrittore, e la storia di papa Gregorio, di suo cugino Eusebio, patrizio romano ricco e dissoluto, di sua figlia Ottavia e del suo amante, il palafreniere Celeste, concupito dallo stesso Eusebio, è quella che lui spaccia per la materia del suo romanzo nei suoi racconti a Carlo, per il quale, poco a poco, finisce per provare un’intensa attrazione.

E il libro inizia benaccio, con i capitoli in cui si alternano presente (realtà) e passato (invenzione romanzesca), con il frutto della fantasia di Gregorio che però, a tratti, sembra riuscire a penetrare in modo misterioso nel mondo reale, mentre la storia sempre più finisce per ricalcare i suoi ultimi contraddittori, imprevisti moti del cuore. Ora, io ho notato questo, che in genere ho un cuore di pietra e difficilmente mi commuovo per le storie d’amore etero (con poche eccezioni e solo quelle senza speranza, Henry/Mrs. Fox, Ivan/Katarina, Eymerich/Myriam, Lucille/Bruno), mentre mi sciolgo subito per quelle omo… È così: vedi Chiamami col tuo nome, Cry to Heaven, Union Atlantic, il recente Hot Head. Anche qui non si fa eccezione, e più erano noiosi i due bei giovanotti innamorati Celeste e Ottavia (chissà, forse avrà contribuito a rendermeli antipatici anche la stucchevole copertina), più erano intriganti e intensi i capitoli con Gregorio (non il papa! L’io narrante!) e Carlo… Lo erano anche i brani in cui il perfido Eusebio si struggeva di desiderio per il bel Celeste… almeno all’inizio, ma trascinata tanto per le lunghe la cosa ha finito per diventare una lagna insopportabile.

Ed ecco infatti il difetto del libro, la ragione del suo misero fallimento, per quanto mi riguarda: ha (almeno) 100 pagine di troppo. Non finiva più. Uno strazio. Una pena. Un’agonia.

Purtroppo, la vicenda “attuale”, la tensione erotica Gregorio/Carlo viene presto sacrificata in favore di quella antica: il punto di forza dei due filoni che si intersecavano viene, chissà perché, abbandonato, e ora ci si dedica esclusivamente alla storia ambientata nel VI secolo. E qui, stranamente, perché in genere si pensa debba essere il contrario, a deludere non erano i brani in cui erano in scena autentiche figure storiche realmente esistite, i “potenti”, quali papa Gregorio, i sovrani longobardi Teodolinda, Autari, Agilulfo… Quelle scene erano invece le cose migliori, ben costruite, ben inscenate, dense di dettagli e spiegazioni senza essere didascaliche e pesanti, cariche di fascino, ben aderenti alla realtà storica: forse le pagine più riuscite sono quelle che descrivono la battuta di caccia della corte longobarda sui monti dell’Amiata, ma anche quelle con Gregorio nel suo studio che si divide fra gli studi teologici, sempre abbandonati con rimpianto, e le cure degli affari temporali in un periodo agitatissimo per la storia d’Italia (solo un appunto: ma come si fa a riferirsi, a p. 55, ai Dialogi del papa col titolo, inventato e solamente per esigenze “commerciali”, che gli hanno dato in una recente edizione italiana, “Storie di santi e di diavoli”??).

No, a far crollare drasticamente il giudizio sono le infinite e interminabili e insopportabili complicazioni del triangolo Celeste-Ottavia-Eusebio, che a un certo punto diventa addirittura un “quadrato” con l’inserimento di un quarto incomodo, e una fine che non vuole arrivare mai: penso di aver letto pochi libri che si trascinavano altrettanto lungamente come questo. E mi rendo pure conto che in effetti tutta l’ultima parte adombra i dubbi e le incertezze e i contrasti del Gregorio del XXI secolo, diviso fra la moglie gelosa e l’attrazione per Carlo, ma sono pagine così noiose e sembrano così appiccicate al resto come una specie di corpo estraneo, che ho fatto una fatica enorme a sorbirmele tutte, e solo perché ero sostenuta dalla speranza (vana) di rivedere anche la coppia Gregorio/Carlo e perché non accettavo l’idea di abbandonare un libro a una cinquantina scarsa di pagine dalla fine (sì, sono stata a un passo dall’abbandonarlo: non ne potevo più). E come ciliegina sulla torta, un epilogo che, nello spazio di una pagina e mezza, all’improvviso smentisce, non si capisce perché, quello che era stato uno dei punti fermi della trama fino ad allora. E non ho parlato della punteggiatura un po’ così. A stento è arrivato alle 2 “stellette”: e fino alla metà circa era da 3, vedete un po’ che razza di disastro deve essermi sembrato il finale. Se doveste leggerlo, fatevi un favore: fermatevi a pagina 314 (su 417).

Roberto Pazzi, Mi spiacerà morire per non vederti più, voto = 2/5
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