Venere privata

Fra gli autori italiani ultimamente impazza il noir: se ci si fa caso, è uno dei generi più frequentati, e anzi ormai bisognerebbe dire “inflazionati”. Venere privata di Scerbanenco è stata allora una ventata di “aria fresca” in un panorama che ormai spesso rischia il “già sentito”. Sì, l’ironia è voluta, perché questo romanzo è uscito nel 1966, a dirla tutta è forse il capostipite del genere.

È anche il primo della serie dedicata a Duca Lamberti, personaggio con un’interessante storia alle spalle: medico, ha praticato l’eutanasia a una paziente in fase terminale, è stato arrestato, processato e condannato a tre anni di carcere, oltre alla radiazione dall’Ordine dei medici. Come si vede, Scerbanenco non aveva paura di affrontare temi caldi, allora come oggi. All’inizio del romanzo, Duca ha scontato la pena e da pochi giorni è un uomo libero, ma nel frattempo ha perso tutto: il padre, un integerrimo “servitore dello Stato”, poliziotto in pensione, per il quale il figlio dottore era un grande motivo d’orgoglio, non ha retto al dolore ed è morto d’infarto poco tempo dopo la sua condanna, la sorella più giovane, rimasta sola, è stata ingannata da un uomo che l’ha sedotta e poi abbandonata incinta. Lorenza, questo il suo nome, e la nipotina Sara sono ora la sua famiglia, e l’unico desiderio di Duca ora è essere dimenticato e trovare un lavoro qualsiasi per mantenerle. Grazie all’intervento di un amico poliziotto, viene assunto da un ricco industriale milanese per un compito delicato e che richiede, appunto, una persona discreta: guarire dall’alcolismo suo figlio Davide, un giovane grande e grosso e in apparenza in perfetta salute, molto timido ma fino a qualche tempo fa normale e intelligente, che, da circa un anno, misteriosamente, è precipitato nel vizio e ora è diventato praticamente un vegetale, sempre ubriaco, istupidito, muto di fronte a ogni richiesta di spiegazioni, indifferente a qualsiasi tentativo di scuoterlo.

Un inizio che non mi aspettavo e che è forse la parte migliore del romanzo, quieto, calmo, così poco “scoppiettante” al confronto dei tanti emuli più recenti, in cui si leggono le riflessioni amare di Duca sul proprio passato, sulla propria “stupidità” per aver voluto seguire coerentemente i propri principî sapendo che non avrebbero mai pagato, i suoi tentativi di penetrare nel “muro di gomma” del silenzio del giovane che gli è stato affidato, ci si interroga su questo oscuro “male di vivere” dell’enigmatico rampollo, la cui solitudine, esattamente un anno prima, si era casualmente incrociata con quella di un’altra persona, la cui storia è narrata in una serie di intensi flashback. Ma ben presto arriva la trama gialla a mettere realmente in moto le cose, ma anche, forse, se posso dirlo, a far perdere un pizzico di fascino a una storia fino ad allora quasi “sospesa” e sussurrata e proprio per questo coinvolgente ed emozionante (solito avviso: per leggere gli spoiler nascosti, evidenziate il testo).

Infatti, più che il “mistero” in sé, che, finché non ci viene detto che effettivamente il suicidio di Alberta (la prostituta “a tempo perso” con cui Davide era stato poco prima che ella morisse, appunto apparentemente suicida, fatto di cui lui si sentiva responsabile: questo il trauma che l’aveva spinto a bere) presenta punti poco chiari, a essere sinceri non si capisce neanche quale sia (io fino ad allora vedevo solo transazioni fra adulti perfettamente consenzienti), è indagato con metodi alquanto inverosimili (diciamo che la polizia lascia fare al protagonista, che, a parte essere un ex carcerato, è un signor nessuno, senza alcuna autorità, un po’ quello che gli pare, l’indagine è cosa sua; inoltre, visto che negli anni sessanta non dovevano esserci ancora molte donne poliziotto, a un certo punto un compito delicatissimo viene affidato alla prima tizia che passava, o quasi) e poi “chiuso” con un bel “trionfo” per i nostri eroi (no, “trionfo” no, se si pensa al prezzo pagato da uno dei personaggi, ma insomma, sembra che in mezz’ora l’intera organizzazione venga sgominata, i romanzi di oggi non hanno più questa fiducia smisurata nella giustizia), sono i piccoli tocchi, le caratterizzazioni dei personaggi principali e di quelli minori, le scenette “di contorno” a rimanere impresse nella memoria: la Milano d’agosto in cui si crepa dal caldo, timide operaie che piegano la testa di fronte ai soprusi delle forze dell’ordine perché non hanno nemmeno coscienza dei loro diritti, distinti ma timidi signori che caricano in macchina le ragazze per un po’ di compagnia, commesse senza arte né parte che si ritrovano, spinte dal bisogno, senza neanche sapere bene come, sulla strada accanto alle “professioniste”, una sorella ingenua sedotta e abbandonata con una figlia illegittima, attaccatissima al fratello e ansiosa, un padre lontano e, si immagina, scarsamente affettuoso ma segretamente ammirato, e della cui morte ci si sente tristemente responsabili, un ragazzone tanto imponente fisicamente quanto fragile emotivamente, ricco e solo, e un genitore sconcertato e preoccupato fino al punto da arrivare a usare la violenza per scuoterlo. Insomma, una ricca umanità che sembra stare a cuore dall’autore.

Con un’eccezione però, a quanto pare. Mezzo voto in meno per la violenza con cui viene tratteggiato il personaggio del fotografo “invertito”: l’autore ce lo descrive attraverso lo sguardo pieno di pregiudizi degli altri personaggi, o sono parole sue? Nel dubbio, io lo punisco (sì, lo so che è un romanzo di cinquant’anni fa, ma sono frasi veramente pesanti), ma se qualcuno mi spiega che c’era da cogliere un’ironia che mi è sfuggita, tanto meglio.

Giorgio Scerbanenco, Venere privata, voto = 3,5/5

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