North and South

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Questo libro non l’avevo mai sentito nominare, ma continuava a comparire nelle librerie di un sacco di utenti di Goodreads (e spesso sempre col massimo dei voti): per farvi capire quanto non ne sapevo nulla, pensavo, dato il titolo (“Nord e Sud”), che fosse un saggio di economia politica dedicato alle disparità fra Nord e Sud del mondo. Figuriamoci. Quando mi sono decisa a leggere la descrizione ho scoperto che è invece un romanzo, scritto nel 1855, e che la contrapposizione nord/sud si riferisce invece all’Inghilterra dell’epoca, fra il nord industriale, mercantile e operaio, ricco ma attraversato da contrasti e tensioni, e il sud più “idillico” e legato alla natura, più elegante ma anche più indolente e arretrato.

La diciottenne Margaret Hale è vissuta nel benessere e fra gli affetti familiari, nell’elegante casa londinese della zia. Ora la cugina sta per sposarsi, e lei torna a vivere coi genitori, in un cottage immerso nella ridente campagna dell’Hampshire: là il padre di Margaret è il rettore della locale parrocchia anglicana, e la madre, un po’ brontolando per la lontananza dalla città, conduce una vita placida e tranquilla. Questo quadretto idillico si frantuma quando la ragazza apprende in confidenza dal padre che la sua fede sta attraversando una grave crisi, e che in conseguenza di ciò ha deciso di lasciare la guida della parrocchia e trasferirsi con la famiglia in una grigia città del nord, Milton (nell’immaginaria contea del Darkshire, dal nome evocativo!), dove intende guadagnarsi da vivere come maestro.
Margaret ammira la coerenza e la mancanza di ipocrisia del padre, ma i primi tempi in quella città cupa, sporca, soffocata dal fumo delle ciminiere e popolata da un’umanità nettamente divisa fra la classe dei padroni, ossessionati dai soldi, dal profitto, dalle macchine, e quella degli operai, che covano un odio minaccioso e sono sempre pronti a esplodere con violenza, sono deprimenti.
Quali rappresentanti opposti di queste due tipologie, Margaret fa la conoscenza di Nicholas Higgins, un rude operaio molto impegnato nelle lotte sindacali, e soprattutto di John Thornton, proprietario di uno dei più fiorenti cotonifici della zona, autentico self-made man che fin da giovanissimo col suo lavoro ha mantenuto la madre e la sorella, energico e intraprendente, ma che ha scarsa o nulla comprensione per chi ha una tempra meno solida della sua.

Margaret, dall’iniziale insofferenza e disprezzo per quel modo di vivere così distante da ciò cui era abituata, sceglie di immergersi nei problemi di quella società, di cercare di capire, di svolgere un ruolo attivo di proposta: assiste la figlia di Higgins, gravemente malata, cerca di allontanare quest’ultimo dall’alcol e di riavvicinarlo alla religione, incalza con le sue domande e le sue critiche Thornton, e contemporaneamente sostiene i due anziani genitori, anch’essi disorientati dall’impatto con la nuova realtà, addirittura interviene per impedire che uno sciopero degeneri in violenza, andando in soccorso proprio di Thornton. I continui contrasti fra i due, naturalmente, nascondono una potente attrazione, che l’autrice analizza in modo molto fine, specialmente dal punto di vista della ragazza.

Succedono varie cose, in questo romanzone, col mio riassunto non sono arrivata neppure a metà libro, perciò mi fermo qui, passando alle mie impressioni, che sono molto positive. Non tutto è perfetto, si sente qua e là un certo tono “declamato” e, come dire, ottocentesco, certi “dialoghi” sono più monologhi recitati sul palco. Soprattutto all’inizio la narrazione procede un po’ “a scatti”, come se dovesse assestarsi un po’ (sarà utile precisare che, come tanti romanzi dell’epoca, anche North & South uscì originariamente a puntate, e sarà forse questo il motivo di un certo “impaccio” iniziale, come di alcune lungaggini finali). Leggo però (su Wikipedia) che, secondo alcuni critici, l’inizio un po’ “incerto” sarebbe invece proprio intenzionale, per “depistare” il lettore nelle sue aspettative.

Ma mi sembra che coi difetti si possa chiudere qui, e iniziare col positivo, partendo subito con un enorme complimento: questo libro è riuscito in un’impresa che ha del miracoloso: creare un personaggio femminile al 100% di mio gusto. Non so se la mia è una misoginia di fondo, ma in genere non ho grande simpatia per le eroine, e mi intrigano molto più i personaggi maschili: sarà un caso che, andando a memoria, ma mi sembra di non sbagliare, la maggioranza dei libri che leggo è scritta da uomini, e adesso che a scrivere è una donna avviene il contrario? Stavolta, infatti, nella nostra Margaret Hale sono riunite tante belle qualità, ma senza farne un idolo distante e insopportabile: intelligente, razionale, energica (i genitori spesso sembrano “bambinoni” da gestire, specie il padre), curiosa, concreta, pratica, indipendente senza essere vistosamente anacronistica e irrealistica (d’altronde, il romanzo è scritto da una contemporanea!); certo, man mano che la storia prosegue queste doti rischiano di essere esagerate tanto da farne poco meno che una santa, dalle virtù eroiche e inscalfibili pur nel mezzo di mille disgrazie (considerando poi che si tratta di una ragazza sui vent’anni), ma le mie simpatie verso di lei non hanno vacillato neanche quando i suoi atteggiamenti mi sono parsi meno comprensibili, o meno realistici.

Altro pregio, l’autrice non ha paura di affrontare temi “scabrosi”: l’intero romanzo tratta di un soggetto che non ti aspetteresti da una signora dell’Ottocento, le lotte nelle fabbriche, i sistemi di produzione, gli alti e bassi nella carriera di imprenditore, ma mi riferisco in particolare ad alcuni argomenti come il suicidio di un operaio incapace di mantenere la propria famiglia e stretto suo malgrado nella tenaglia di padroni e Union, o la stessa crisi di fede del padre della protagonista, o lo status di criminale e “traditore della Patria” del fratello (ex ufficiale di Marina su cui pesa la condanna in contumacia per ammutinamento e che quindi vive lontano dall’Inghilterra: mi ha colpito la “libertà” con cui vengono descritte queste circostanze e vengono attribuite opinioni anche molto critiche dell’autorità e dell’esercito a quello che è a tutti gli effetti un personaggio positivo).

Abbiamo infine la bella storia d’amore. Dirò la verità, mi ha intrigato di più la prima parte, in cui fra lui e lei avvenivano spesso vivaci scambi di idee e di opinioni, dai quali uscivano quasi sempre in totale disaccordo ma che, allo stesso tempo, contribuivano a farli avvicinare come persone e a dar loro modo di scoprire certe qualità l’uno dell’altra, piuttosto che la seconda, in cui le tensioni e le complicazioni del filone romantico della storia si reggevano su espedienti più “classici” come il malinteso, l’equivoco che non si riesce mai a chiarire, la gelosia (immotivata, naturalmente, ma lui non può saperlo, però lei non può spiegargli, eccetera eccetera).

Da qui in poi parlerò del finale e, siccome rivelerò proprio tutto, userò la solita tecnica: scrivo alcune frasi in bianco, così da renderle invisibili sullo sfondo, in questo modo: testo invisibile. Se volete leggerle evidenziate il testo col mouse.
La fine mi ha un po’… lasciato senza parole. Dopo svariati capitoli, non brutti né inutili, perché comunque servivano a far sempre più apprezzare la forza di carattere dell’eroina, e quanto gli ultimi eventi (la morte dei genitori, innanzi tutto) l’avessero cambiata e fatta maturare, ma che comunque talvolta davano l’impressione di tirare la storia taaaanto per le lunghe… eravamo arrivati al 99% del libro e non sembrava proprio che si fossero fatti progressi sulla strada della riconciliazione fra lui e lei (anzi, i due non si parlano quasi più e sembrano rassegnati e convinti che l’altro non li ricambi affatto), tanto che stavo iniziando a valutare seriamente l’ipotesi che non ci sarebbe stato un lieto fine, e non sapevo se essere dispiaciuta o piacevolmente sorpresa per questa originalità della Gaskell che rifiuta di concedere la consolazione di un facile lieto fine al suo pubblico. Ma, poi, bastano pochi click di cambio schermata (chissà quante pagine sarebbero!) e, zac!, si risolve tutto e, all’improvviso, all’ultimissima scena, Margaret e John vivono felici e contenti. Per carità, è un momento tenerissimo e però senza alcun mieloso sentimentalismo, in linea col carattere di entrambi, e anzi il tono è genuinamente lieto, persino giocoso, però… Abbiamo tirato avanti capitoli su capitoli senza che vi fossero sostanziali progressi… e proprio l’ultima scena la fai arrivare come un fulmine a ciel sereno? Sono rimasta un po’ incredula! Ho una mia teoria: come detto, il romanzo uscì originariamente a puntate su un giornale. È possibile che il numero di capitoli fosse stabilito a priori, e che quindi, “scaduto” il tempo, si dovesse chiudere la storia, non importa come? In effetti nella premessa l’autrice scrive di aver rivisto l’opera per la pubblicazione in volume e aver ampliato e reso più gradualmente alcuni passaggi che in precedenza, per esigenze “editoriali”, avvenivano in modo un po’ troppo brusco. Avrebbe potuto indulgere un po’ anche sul finale! Nella voce di Wikipedia sopra citata forse si trovano conferme in questo senso. A meno che non sia stata anche questa proprio una scelta deliberata, di chiudere in modo così secco, essenziale, senza tanti “sbrodolamenti” sdolcinati.

Elizabeth Cleghorn Gaskell, North and South, voto = 4/5
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