La versione di Barney

Parecchio tempo fa, quando uscì in prima edizione italiana (con una copertina molto più bella della mia: io volevo quella con la foto di Richler da vecchio, che chiaramente nella mia mente sovrapponevo al ritratto dell’immaginario Barney, ma questa costava assai meno), questo romanzo fece sensazione, se non ricordo male, e fu il caso letterario del momento, ricevendo grandi elogi. Pur avendolo da tempo in lista d’attesa, arrivo quindi con molto ritardo ad affrontare finalmente questa lettura: l’occasione mi è stata fornita dal “pozzo letterario” di novembre di Goodreads Italia (qui spiego di che si tratta), i cui partecipanti curiosamente sembrano sempre riuscire a “intuire” i titoli che da tempo mi sono ripromessa di prendere in mano, fornendomi così il pretesto per farlo una buona volta.

La versione di Barney, di Mordecai Richler, dunque (“Elenco libri da leggere 2”!). Come dicevo, ne avrete sentito parlare e avrete probabilmente già letto varie recensioni su di esso qua e là. Molti hanno finito per affezionarsi a questo esempio classico di antieroe, Barney, voce narrante, “adorabile brontolone”, “simpatica canaglia”, portatore di una sana, brutale, liberatoria “ventata di scorrettezza”: io, a dire il vero, non ne ho invece subito affatto il fascino, e l’ho sempre trovato un vecchio rancoroso e fallito e senza talento, costretto a vedere tutti quelli attorno a sé arrivare alla fama e al successo (postumi, in un caso), meschino, vendicativo e scorretto, ubriacone, bugiardo e millantatore, infedele ma anche, a sua volta, tradito e sbeffeggiato da quelli che considera amici, dalle mogli e, in ultimo, dal destino.

Alcuni dei lettori e ammiratori del romanzo sono rimasti invece colpiti da forse l’unico aspetto della personalità di Barney in cui egli si mostra appassionatamente, quasi spudoramente, sincero e coerente: l’intensità del suo sentimento per la terza moglie, Miriam. Devo dire la verità, questa parte della storia mi ha interessato di meno (non mi entusiasmano i colpi di fulmine), anche se ho trovato comunque emozionante il forte senso per la famiglia, la nostalgia e lo struggimento di Barney per quel piccolo Eden (la vita assieme a Miriam, stella polare di tutta la sua esistenza, e ai loro tre figli, prima che la donna lo lasciasse) in cui miracolosamente e incredibilmente era riuscito ad entrare proprio lui, immeritevole e sempre timoroso che quella straordinaria fortuna un giorno o l’altro l’avrebbe abbandonato, come poi si era verificato.

No, il motivo principale per cui questo romanzo mi è piaciuto molto è stata la sua costruzione rifinitissima, l’abilità nel far sembrare caotico, dispersivo e casuale ciò che in realtà era architettato ad arte in ogni minimo tassello, e la mia ammirazione è andata tutta al virtuosismo e alla cura maniacale per il dettaglio di Richler.

Tutto il romanzo assume le sembianze di una “confessione”, di un resoconto “sincero” e definitivo in cui Barney espone la sua versione degli eventi della sua rocambolesca vita, e in particolare di un episodio che da decenni continua a tormentarlo: nel 1960, il suo migliore amico, Boogie, scompare senza lasciare traccia mentre si trova con lui in un cottage di montagna. Viene creduto morto da tutti tranne che da Barney, che continua con fermezza a sostenere con assoluta convinzione che sia ancora vivo da qualche parte, ma le circostanze poco chiare della vicenda fanno sì che proprio lui sia accusato di omicidio, e poi assolto per insufficienza di prove: ma le ripercussioni di quell’evento, l’onda lunga dei sospetti che per tutta la vita continueranno a pesare su di lui anche dopo l’esito del processo sono naturalmente il nodo centrale del romanzo, e sono anche il pretesto per cui il personaggio Barney prende appunto la penna in mano e inizia il suo manoscritto, per rispondere alle accuse mosse contro di lui in un altro libro di memorie di recente pubblicazione (un altro libro nel libro!), quello di una sua vecchia conoscenza, lo scrittore Terry McIven. Naturalmente, però, la sua risposta si allarga a dismisura, fino ad abbracciare, fra continue e labirintiche digressioni, la sua intera vita passata e presente.

A fare da controcanto alle sue “verità”, però, sono il curatore del suo manoscritto, il figlio Mike, con una serie di note, spassosamente puntigliose ed erudite, in cui corregge i numerosi errori, le sviste e i vuoti di memoria paterni, nonché soprattutto la sua “nemesi”, Terry McIven stesso, dalle pagine della sua autobiografia, di cui occasionalmente sono riportati alcuni brani, in cui racconta una storia ben diversa (ma Richler si è voluto proprio divertire, per cui, ad aumentare ancora di più nel lettore il disorientamento per il vorticoso e virtuosistico gioco di specchi e di prospettive, la bozza manoscritta di quest’ultima è ancora diversa dalla versione pubblicata, e Mike in più punti le collaziona in nota!). Nessuno è mai sincero del tutto e tutti sono spesso fraintesi e mal giudicati; di molte cose ascoltiamo solo un’interpretazione, che poi viene clamorosamente smentita più avanti o della quale ormai abbiamo imparato da soli a dubitare. Clara, la prima moglie di Barney, è una che tenta disperatamente di darsi arie bohémienne e alternative e che gioca a fare l’artista maledetta o ha veramente talento? In vita odia le donne e, da morta, paradossalmente assurge a icona femminista. McIven e Panofsky forniscono l’uno dell’altro un ritratto assolutamente speculare, accusandosi a vicenda delle stesse debolezze a distanza, attraverso le pagine dei loro manoscritti. E anche il modello di riferimento di Barney, l’ineffabile Boogie che il protagonista ha sempre idolatrato (e giustificato) e le cui gesta sembrano un perfetto collage del tipico genio sregolato, di tutto quello che Barney avrebbe sempre voluto essere… quanto di questo ritratto è vero, e quanto invece il suo grande amico ha abbellito la figura di un autore mediocre, semi-sconosciuto, gran parolaio e alla fine precipitato nella tossicodipendenza? E quello che leggiamo nelle ultimissime righe, nel poscritto di Michael Panofsky (un’altra voce narrante!), è finalmente la risposta, sorprendente, a tutte le nostre domande, o semplicemente una sua supposizione ormai impossibile da verificare?

Insomma, questo romanzo ti strega perché sei costretto a leggerlo con i sensi costantemente all’erta, attento ad ogni dettaglio che non quadra, a ogni aneddoto che “magicamente” risulta diverso rispetto ad alcune pagine prima, a non dare nulla per scontato, a mettere in dubbio tutto quello che stai leggendo, a fare tu i collegamenti mentali necessari, a leggere fra le righe di quanto è scritto. D’altronde, è lo stesso Barney a dirlo: “Mi viene persino il dubbio di aver ritoccato gli eventi a mio vantaggio, come del resto ho fatto con innumerevoli altri episodi della mia vita” (p. 371: qui si riferisce in particolare al mistero della scomparsa di Boogie, ma potrebbe essere la frase-chiave di tutto il libro; ed è veramente confuso e smemorato per via dell’età che avanza, o ha un’enorme faccia tosta?).

Un altro motivo per cui il romanzo mi è piaciuto? Beh, naturalmente non puoi non apprezzarne anche la comicità e l’infinità varietà di situazioni e personaggi e luoghi che attraversano una vita intera, da Clara la prima moglie alla Seconda Signora Panofsky e la sua loquela comicamente irresistibile, il gruppo di pseudo-artistoidi parigino e il padre cialtrone ex poliziotto, Irv Nussbaum e la sua ossessione per la causa di Israele, il produttore e sceneggiatore Hymie Mintzbaum dalle mille vite e dai mille aneddoti, i tre figli l’uno totalmente diverso dall’altro, il Canada degli anni della Depressione, la Parigi degli anni cinquanta, Hollywood e il mondo della televisione, e ovviamente il sempre affascinante, a volte incomprensibile e insondabile, microcosmo della cultura, dei legami, delle corrispondenza, delle tradizioni, delle idiosincrasie, della mentalità ebraici, insomma un intero universo in movimento e richiamato alla vita dai ricordi del protagonista (e dalla penna dell’autore). E, alla fine, trovi anche una dolorosissima conclusione sulla vecchiaia, sulla paura di doversene andare, da soli, sul sollievo di scoprire che invece accanto a te negli ultimi momenti trovi più persone di quante ti saresti aspettato, sulle reazioni di coloro che sono rimasti.

Mi domando come siano riusciti a fare di questo libro un film (che, se non sbaglio, la critica non giudicò male), vista la natura (volutamente) caotica e sconclusionata di queste pagine, il flusso assolutamente disorganizzato di decine di ricordi e associazioni mentali che scaturiscono dalla penna di Barney Panofsky, l’affastellarsi di aneddoti che suonano di volta in volta distorti, abbelliti, semplicemente rievocati in modo impreciso per il tanto tempo trascorso o – forse – inventati di sana pianta.

Mordecai Richler, La versione di Barney (trad. Matteo Codignola), voto = 4/5
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