Ossa nel deserto

Inizio con una nota che può sembrare frivola e quindi non molto appropriata, ma serve principalmente a me (mi piace ricordare come sono giunta a scoprire un certo libro), per cui questo primo paragrafo si può tranquillamente saltare: nel gioco “La parola del mese”, per agosto era stata scelta la parola deserto e, nel cercare qualche esempio, mi sono imbattuta in questo saggio, che mi ha subito attirato. Uno degli scopi del gioco è proprio scoprire, grazie alla presenza di una certa parola nel titolo, libri nuovi, per cui con me stavolta ha “funzionato”.

L’emergenza del “femminicidio” in atto da anni, almeno dall’inizio degli anni novanta, nella città messicana di Ciudad Juárez (stato di Chihuahua, proprio sul confine con gli Stati Uniti), dove centinaia di donne e ragazze vengono rapite per essere poi spesso ritrovate cadavere, vittime di violenze, o scomparire nel nulla, non è più una novità: io ricordo di averne sentito parlare per la prima volta in un articolo letto anni e anni fa sul Corriere della Sera, forse questo. Ne avevo però una conoscenza mediata dalla prospettiva di Hollywood: so che sull’argomento è stato girato un film e, più recentemente, mi è tornato in mente guardando alcune puntate della serie TV The Bridge (la versione americana: il titolo viene proprio dal ponte che collega El Paso, in Texas, con Ciudad Juárez attraverso il Rio Bravo). Tutti approcci che, probabilmente, semplificano e magari “addolciscono” la realtà, per cui questo saggio è il primo contributo “serio” che leggo su questa tragedia.

Il giornalista Sergio González Rodríguez fa qui non tanto una cronologia degli eventi (anzi, purtroppo questa è spesso ingarbugliata: vedi più avanti), bensì denuncia, con nomi e cognomi (i suoi articoli hanno procurato all’autore più di una minaccia), la catena di errori, omissioni forse non casuali, inefficenze, deliberati depistaggi, indifferenza, pressapochismo, di cui sono responsabili le forze di polizia e le autorità giudiziarie e politiche, statali in primo luogo ma talvolta anche a livello federale, che ha permesso, probabilmente persino coperto, questo olocausto (impressionante l’interminabile lista di nomi delle vittime dell’ultimo capitolo). Sembra che il Messico degli anni novanta (di oggi?), o per lo meno lo stato di Chihuahua, fosse soffocato da una rete quasi inestricabile fra politici, poliziotti, grandi affaristi, narcotrafficanti: ha poco senso, dice l’autore, parlare di “legalità” e “illegalità”, ormai siamo alla “paralegalità”: le attività illecite si svolgono quasi alla luce del sole, con una sicurezza e un senso di impunità assoluti. Per fortuna, nel corso della sua inchiesta, Sergio González Rodríguez incontra vari esponenti, soprattutto della società civile, del mondo delle associazioni, di altra pasta: si spera che negli anni le cose abbiano continuato a cambiare. A leggere le statistiche della pagina di Wikipedia, però, queste morti non sembrano diminuire. Personalmente, mi ha colpito il fatto che l’autore citi, tra i sistemi usati dalle autorità per gettare fumo negli occhi del pubblico e coprire le proprie manchevolezze o la propria complicità, oltre all’individuazione di capri espiatori di comodo, la tattica della colpevolizzazione delle vittime: le ragazze vittime degli ignoti stupratori e assassini erano giovani, spesso di basso ceto sociale, spesso frequentavano locali da ballo, amavano divertirsi, magari conducevano “una doppia vita”, e forse forse, in fondo in fondo, un po’ se la sono cercata, non sono state abbastanza prudenti… Sergio González Rodríguez (e con lui le associazioni femministe e di parenti delle vittime che ha incontrato e che ricorda) fa benissimo a stigmatizzare questa tendenza. Purtroppo, è talmente radicato, in primis in noi donne, l’imperativo della paura, dello “stai attenta!”, che anche io, talvolta, scopro con rammarico, con dispiacere, con disgusto, di non esserne immune.

Un libro forte e il cui valore è stato universalmente riconosciuto quando uscì (la prima edizione è del 2002). Eppure non nascondo di essere rimasta un po’ perplessa a fine lettura: forse occorrevano conoscenze di base che io non possiedo (un minimo di geografia e storia messicane), forse la moltitudine di nomi e di sigle e di uffici mi ha un po’ confuso o forse il fatto che il libro sia stato composto assemblando articoli usciti a più riprese su vari numeri della rivista “Reforma” ha fatto sì che fosse un po’ sconnesso in alcuni punti e con qualche ripetizione in altri, ma insomma non ho compreso appieno lo stato delle cose, l’opinione dell’autore. Sicuramente colpa mia. Sono riuscita a seguirlo meglio, piuttosto che nella sua denuncia dell’incompetenza o, peggio, della connivenza delle autorità di polizia e politiche (che pure, ripeto, è una parte essenziale del libro, sia detto a scanso di equivoci), quando traccia un rapido ritratto del contesto socio-economico della città, del ruolo delle maquiladoras come “motore” economico della zona, unico orizzonte lavorativo per la quasi totalità delle giovani, della vita notturna del luogo, di una cultura tradizionalmente maschilista e misogina, che si fa via via più aggressiva proprio perché inizia a sentirsi “minacciata” da queste giovani lavoratrici e sempre più indipendenti e che risente molto anche della fascinazione per lo stile di vita opulento e sanguinario dei narcos, propagato anche dalla musica, dall’industria dell’abbigliamento, ecc.

Sergio González Rodríguez era amico dello scrittore Roberto Bolaño, che omaggiò il suo coraggio nel romanzo 2666.

Sergio González Rodríguez, Ossa nel deserto (trad. Gina Maneri e Andrea Mazza), voto = 3/5

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