We Have Always Lived in the Castle

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A voler essere proprio sinceri, questo libro di Shirley Jackson l’avevo sì adocchiato, l’avevo pure giudicato interessante, poi però l’avevo lasciato perdere (troppi libri da leggere!). Però per la “sfida dell’alfabeto” (che comunque non riuscirò sicuramente a portare a termine neppure quest’anno, maledetta X!) mi serviva un autore dal nome che inizia per J, e allora mi è tornato in mente. Alla fine, comunque, è anche un libro che si adattava bene al periodo di Halloween, e poi con la Jackson non andavo totalmente alla cieca, perché già avevo letto il breve e terrificante e giustamente celebre racconto La lotteria.

Insomma: siamo nel New England degli anni ’50-60. Le due sorelle Blackwood, Constance, di 28 anni, e Mary Katherine, 18, vivono assieme allo zio invalido, Julian, in una grande casa ai margini del paese: tutto il resto della famiglia – padre, madre, fratellino, zia – è morto in circostanze misteriose sei anni prima, dopo un’ultima cena a base di arsenico (anche Julian era stato in fin di vita, ma era sopravvissuto, sia pure appunto ormai invalido e dalla salute mentale irrimediabilmente scossa). La principale sospettata, Constance, aveva subito un processo da cui era uscita assolta. Da quel momento fatale, la vita nella casa si è riaggiustata su una routine sinistramente idilliaca e come bloccata, “anestetizzata” in una serie di rituali ripetuti sempre uguali: Constance che cucina e pulisce con una dedizione ossessiva, Mary Katherine, diciottenne che pensa e agisce come una bambina (è anche la voce narrante), che gioca col gatto e fa rapide sortite in paese per fare la spesa, lo zio che scrive e riscrive un libro sugli eventi di quell’ultima sera, ricostruita fin nei minimi e più insignificanti dettagli. Il mondo esterno è stato tagliato fuori, e d’altra parte gli abitanti del paese, a parte rare eccezioni, dopo la tragedia sono sempre più ostili e sospettosi verso i Blackwood superstiti.
In questa irreale e sempre uguale “casa di bambole” arriva un giorno, inaspettato, un cugino delle due ragazze, Charles, con l’intento apparente di aiutare Constance a rientrare nel mondo e uno più nascosto di mettere le mani sui soldi dello zio defunto che da anni languono inutilizzati nella cassaforte: l’intruso mette in crisi tutti gli equilibri, ed è soprattutto Mary Katherine, che nel corso del tempo si è assunta il compito di “proteggere” a tutti i costi la sorella e il loro circoscritto universo, ad attivarsi per allontanare la minaccia.

La prima parte del romanzo costruisce eccellentemente l’atmosfera di “assurda normalità” e velata reticenza e negazione che domina in casa Blackwood, gli elementi inquietanti e disturbanti, gli accenni a quello che è successo anni prima nella casa, vengono introdotti poco per volta, la voce quasi “cantilenante” di Mary Katherine che ripete sempre i pochi, basilari pilastri su cui si regge la vita dei tre reclusi (i pasti, i lavori nell’orto, le pulizie, e poi di nuovo da capo) e che, di sfuggita, ogni tanto si “tradisce” ottiene sorprendentemente sul lettore l’effetto all’apparenza opposto di “anestetizzarlo” rendendolo però sempre più perplesso, teso, a disagio. L’arrivo di Charles fa perdere un po’ questa ambiguità fintamente innocente perché tutto diventa molto più scoperto, manca il fascino angosciante che aveva reso spettacolare la parte precedente. A differenza che ne La lotteria, questo romanzo non finisce “col botto” ma si assiste invece a un progressivo ritrarsi e rimpicciolirsi dell’orizzonte delle due protagoniste, come se tutto andasse sfumando in lontananza, anzi casomai si aspetta con ansia una svolta, un colpo di scena che, invece, è negato (non si può definire tale, infatti, la rivelazione su chi sia stato effettivamente ad avvelenare la famiglia, perché quella è facilmente intuibile da subito), con l’isolamento delle sorelle che diventa sempre più assoluto, opprimente, inattaccabile e definitivo. Insomma la prima parte fa stare sulle spine, mentre la conclusione sembra fare apposta a smorzare, sopire, come se la perturbazione nella casa sia stata riassorbita e cancellata: purtroppo forse è tirata troppo per le lunghe, così che, una volta capito questo, le pagine rimanenti non aggiungono più molto.

Grazie all’Introduzione di Jonathan Lethem a questa edizione, sono venuta a sapere che è possibile leggere l’arrivo di Charles anche in chiave sessuale, la figura del maschio che penetra all’improvviso nella fortezza chiusa e confortevole ma sterile di Constance, donna traumatizzata e “bloccata” eternamente all’infanzia (ma è solo una delle possibili interpretazioni). Di solito non amo molto le introduzioni, soprattutto ai classici, perché alcune sembrano provare gusto a svelare tutto il possibile della trama (e anche in questa qualche dettaglio di troppo c’è), ma stavolta sono grata a Lethem per avermi dato la possibilità di orientarmi nella lettura, perché altrimenti l’arte della Jackson è così sottile, i significati così sussurrati e velati che probabilmente avrei finito col leggere, inquietarmi, spaventarmi, ma senza mai veramente capire perché. Quindi, a chi vorrà leggere questo libro, suggerisco di non aspettarsi un classico romanzo dell’orrore perché rimarrebbe deluso, ma di prepararsi a questa “caccia” al sottotesto nascosto.

Shirley Jackson, We Have Always Lived in the Castle, voto = 3/5
Per acquistarlo on line (edizione italiana)

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