The Language of Forms

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Ho visto questo libro al bookshop della Morgan Library di New York: manoscritti miniati, arte barbarica, 50% di sconto… insomma, subito comprato. Sono sei lezioni/conferenze tenute dallo storico dell’arte Meyer Schapiro, proprio alla Morgan Library negli anni Sessanta, sul tema dell’arte insulare, fiorita nelle isole britanniche e poi esportata anche nel continente europeo grazie ai tanti viaggi dei missionari e dei monaci irlandesi, fra il VI e il X secolo, le cui testimonianze più splendide sono i ricchi codici miniati, quali l’Evangeliario di Kells, l’Evangeliario di Durrow, l’Evangeliario di Lindisfarne (la stessa Morgan Library conserva molti titoli).

Quest’arte è stata a lungo bistrattata o comunque non compresa, soprattutto nel XIX secolo: poiché il suo carattere è del tutto anti-naturalistico e poiché, dal Rinascimento in avanti, il nostro canone estetico fa coincidere la bellezza con la vicinanza all’ideale della natura (solo con le avanguardie del Novecento si inizia a varcare questa frontiera: anzi, lo stesso Schapiro riconosce che forse la sensibilità di noi contemporanei è più adatta ad apprezzare l’arte altomedievale di quanto non fosse possibile in precedenza), queste miniature al massimo sono state lodate per la perizia tecnica dei loro esecutori e l’estrema complessità dei motivi decorativi, ma per il resto l’arte insulare è stata considerata primitiva e maldestra (basta guardare la resa delle figure umane o animali: piatte, senza alcuna idea di profondità, semplificate e rigide), caotica, una regressione rispetto alla misura e all’aderenza alla realtà dell’arte classica.

Meyer Schapiro si propone di ribaltare questi giudizi dispregiativi (ricordo che siamo negli anni Sessanta, quindi il suo lavoro si può dire forse pioneristico), e lo fa con grande passione. Si avvale di numerosi esempi che illustra con una meticolosità incredibile in ogni dettaglio, facendo cogliere particolari che, spesso, l’opulenza dei colori, la moltitudine e la complessità dei motivi, che si intersecano, si sovrappongono, si ripetono e si rovesciano, impedisce di vedere all’occhio distratto.

Dove tradizionalmente venivano visti disordine e casualità, Schapiro sottolinea invece l’estrema cura nella costruzione dell’insieme e i complessi rapporti che legano tutte le varie parti, dalla figura al testo, dalla decorazione alla cornice; dove veniva lodata l’abilità tecnica ma limitata alla monotona ripetizione di un elemento a puro scopo decorativo, rileva invece il gusto per l’irregolarità e l’inatteso all’interno di un insieme all’apparenza rigido e schematico, fa apprezzare l’originalità di un dettaglio inatteso, incongruo, quasi “capriccioso”, e in questo contrasto risiede la forza espressiva di quest’arte, che si affida poco alla natura e molto al simbolo.

Lo studioso trova inoltre insospettati precedenti e similitudini con esempi dell’arte classica, nonché consonanze con oggetti artistici di altra tecnica. Confesso però che leggere in lingua inglese un saggio estremamente tecnico come questo (anche se a mettermi in difficoltà sono stati più che altro i termini di uso specialistico, perché lo stile di Schapiro, forse anche per il carattere originario di lezioni orali dei testi, è semplice e chiaro) ogni tanto ha messo a dura prova le mie capacità di comprensione, e mi sono talvolta accontentata di seguire le analisi sulle singole opere, piuttosto che riuscire a comprendere il quadro generale dei rimandi e delle ipotesi.

Meyer Schapiro, The Language of Forms, voto = 3/5

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